Kilowatt Festival 2024. Report di sabato 20 luglio
di Simona Maria Frigerio
Iniziamo l’ultima giornata festivaliera con una restituzione durazionale (ossia una performance che dura tre ore e il pubblico può accedervi e andarsene quando vuole) di quattro danzatrici e un danzatore, che hanno aderito al progetto di Katja Heitmann, intitolato Motus Mori – Museum. Come ci spiegano prima di entrare nella sala ove si svolge la performance, Heitmann con la sua assistente e 10 danzatrici da 5 anni intervista, in tutto il mondo, persone di età e provenienza sociale diversa che, in un dialogo vis-à-vis, con una sola danzatrice, le trasmettono almeno un gesto caratteristico, che sarà poi incarnato e restituito, durante la performance, dalla medesima danzatrice.
Ricerca antropologicamente di sicuro intetesse che, però, non riesce a convincerci a livello di restituzione. I gesti fanno parte del nostro bagaglio culturale, in primis – pensateci: perché un occidentale o un orientale può mettere la mano davanti alla bocca se ride? La risposta non è univoca e nemmmeno il motivo per cui si ride: in Oriente è spesso espressione di disagio, imbarazzo, inadeguatezza. Come fa a discernere lo spettatore tale profonda differenza? Il gesto si inserisce, in secondo luogo, sempre in un contesto e/o un dialogo (anche senza l’ausilio del messaggio verbale). Ma se manca l’altro da sé o la situazione che provoca o necessita di quel gesto, lo stesso ha ancora un senso? E veniamo al terzo punto: il ritmo. Qui le e il performer si muovono tutti a una lentezza esasperante (della serie, un centimetro o due ogni 10 secondi, come nel primo quadro di Welcome – a cui abbiamo assistito, sempre a Kilowatt, venerdì 19 luglio). Ma i gesti, più o meno concitati, dilatati, amplificati assumono valenze comunicative completamente diverse. Facciamo un esempio: vi è una persona con un braccio piegato all’altezza del gomito, posizionata a noi frontalmente, e che alza l’avambraccio con lentezza: capiremo che ci sta invitando (almeno se apparteniamo alla cultura occidentale). Ma se muove quell’avambraccio in maniera concitata, a seconda dell’espressione (che nella performance manca totalmente) potrà invitare a sbrigarci o, addirittura, se è un italiano, potrebbe volerci chiedere che cosa stiamo facendo o dicendo.
Il gesto senza ritmo, come nella danza quello immotivato, è come la parola di un attore che non sappia controllare il fiato: non ha forza, non comunica e, spesso, non è nemmeno intelligibile.
Il nostro modestissimo consiglio è che organizzatori intelligenti e lungimiranti come Franchi e Ricci (che hanno anche inventato le residenze digitali) mettano in contatto Heitmann, che non ha predisposizione per la coreografia – tecnica con la quale si potrebbero mixare i movimenti a ritmo per restituire una performance di senso compiuto – con un artista intermediale come, ad esempio, Lino Strangis in modo da creare, in 3D, un autentico museo virtuale del gesto, con i tempi e i contesti che il significato impone al significante, fruibile ovunque e con la possibilità di essere arricchito anche negli anni a venire.
Alle 18.15 ecco in piazza Torre di Berta, IVONA / Pablo Girolami presentare a pubblico e passanti Migration. Prova difficile, per un danzatore o un attore, quella di confrontarsi con l’altro da sé non solamente in un luogo non deputato ma addirittura in una piazza. E difatti Pablo Girolami opta per una improvvisazione con quattro danzatori che costruiscono passi a due, a tre, a quattro e un assolo finale (teleguidati da Girolami fuori scena). Il quadrilatero della piazza è sfruttato come una passerella in cui Girolami ricrea il suo universo sensuale con accenni a un’estetica da sfilata o da edonismo notturno, che riecheggia la Milano da bere. I passanti si fermano. La musica invita anche chi è oltre i limiti del palco a farsi coinvolgere. Mestiere. Ma buon mestiere.
E chiudiamo la serata e la tre giorni festivaliera con Serena Balivo, protagonista del monologo La morte ovvero il pranzo della domenica, in scena al Teatro alla Misericordia alle 20.15. Uno spettacolo semplicemente fuori tempo massimo. La famigliola felice in stile Mulino Bianco con figlia sessantenne (che si muove e parla come i vecchi da filodrammatica, invece che come le brillanti sess/ttantenni di oggi, prese da viaggi, amicizie, interessi o ancora al lavoro grazie alla Fornero), la quale ogni domenica va dai genitori novantenni in attesa della loro (e ci si chiede perché non della sua, visto quanto trema ed è ingobbita) morte, ha il sapore degli anni 60, massimo primi anni 70 – e nemmeno allora le riunioni familiari riuscivano così idilliache, come ci ha insegnato Eduardo De Filippo. Il finale con San Pietro è la parte più retriva e/o piamente cattolico-tradizionalista. Non convince. Se il niente fa paura, anche un cielo dove risiedere in eterno in contemplazione di una luce accecante potrebbe non allettare. Soprattutto se per ottenerlo, tutto ciò che si è fatto in vita è stato infilare in cartelline di colori diversi esami del sangue e bollette.
Va anche scritto qualcosa sul testo. Certamente è ben scritto, come potrebbe essere una prova di drammaturgia in Accademia, ma è infarcito a un punto tale di luoghi comuni e modi di dire che qualsiasi spettatore ritroverà un pezzo di sé: la vergine è perfezionista, la domenica si portano le paste mignon, la scena delle ceneri al vento fa tanto Il grande Lebowski o The L World, e così via. Nemmeno una frase rompe un filato di maniera, mentre i giochi di luce sanno più di paradisi artificiali che cattolici.
Nel complesso della tre giorni abbiamo soprattutto apprezzato la strenua ricerca di Luca Ricci e Lucia Franchi di nuovi percorsi, poetiche, proposte. Il teatro langue. La danza anche. Il pubblico si affida al passato o alla tradizione ma la contemporaneità che potrebbe nuovamente attrarre le masse, masse militanti, masse critiche, non irrompe prepotentemente sul palco. Eppure là fuori c’è un mondo che soffre, muore e sta destabilizzando sempre più le nostre fragili illusioni: non accorgrersene, obliarlo o temere conseguenze affrontandolo (perché ormai il teatro dipende dai fondi ministeriali e, quindi, sempre più dalla politica di Palazzo), può portare all’asfissia. Prima in teatro. Poi in Europa.
Gli spettacoli sono andati in scena nell’ambito di Kilowatt Festival:
sabato 20 luglio 2024, dalle ore 16.00
Oratorio Santa Maria delle Grazie
Katja Heitmann (DE – NL) presenta:
Motus Mori – Museum
ore 18.15
Piazza Torre di Berta
IVONA / Pablo Girolami presentano:
Migration
ore 20.15
Teatro alla Misericordia
Dammacco – Balivo presentano: La morte ovvero il pranzo della domenica
venerdì, 9 agosto 2024
In copertina: IVONA / Pablo Girolami, Migration