Fools rush in where angels fear to tread*
di Simona Maria Frigerio
Il romanzo d’esordio di Giacomo Pozzi, specialmente nella prima parte, profuma di realismo magico e di quelle favole africane a cui ci hanno abituati piccoli gioielli come Kirikù e la strega Karabà o Kanu, della Compagnia Piccoli Idilli (1). Non sarà un caso che accenniamo a uno spettacolo teatrale, visto che a un Festival di teatro abbiamo conosciuto il giovane autore del romanzo, che rifugge da tutti gli stereotipi di una generazione votata all’edonismo e alla superficialità onanistica dei like.
Il libro, infatti, non solamente è scritto con proprietà linguistica e un tocco di poesia ma è altresì ben costruito; equilibrato nei ritmi e con personaggi – soprattutto di contorno – abbastanza credibili. La trama in sé è originale, fuori dagli schemi e vi si respira la freschezza dell’opera di chi ancora crede nei mulini a vento (fede laica alla quale anche la nostra piccola redazione è tuttora votata).
E però alcune note a margine urgono, proprio perché si tratta di un autore al quale auguriamo una lunga carriera letteraria.
Abbiamo notato un paio di pecche tecniche che sarebbe stato facile per un editor ovviare. La prima è che la seconda parte si apre con il narratore esterno. Ma se il racconto passa il testimone da fratello a sorella, già dal capitolo 5 avremmo dovuto seguire i pensieri e le esperienze, ossia il flusso di coscienza, di Hélène (la cui voce arriva solo nel capitolo successivo) e stessa cosa dicasi per l’ultimo capitolo che dovrebbe essere appannaggio di Umi. La seconda ‘sbavatura’, tipica delle opere prime, è un eccesso di descrittivismo, non solamente in azioni minute come il cucinare o la preparazione del tè (o i 50 anni di Umi che corrono su rotaie troppo dritte, veloci e più da riassunto che da romanzo), ma anche nei personaggi secondari che grondano tutti di storie, quasi fossero un’enciclopedia delle brutte esperienze che si possono fare in Africa (il che è di per sé fuorviante: visto che se esiste chi vende c’è anche chi compra sia gli organi sia l’avorio – come in La bicicletta di Leonardo di Pablo Ignacio Taibo II – ma non per questo nei libri ambientati, magari, a New York se ne fa cenno; e gli stupri – da quelli etnici a quelli degli impuniti figli di papà passando per i militari che disumanizzano l’avversario – interessano le società occidentali quanto i Paesi meno economicamente sviluppati; e così via). In breve: troppa carne al fuoco – ovvero non si può avere 11 fratelli, una madre bipolare, restare orfani, finire nel mercato nero degli organi o dei bambini, ed essere pure incarogniti (come avvocati, sic!) e grassocci! Un libro illuminante a proposito è Venduta (2), che narra, prima, della povertà in Nepal coi toni e il ritmo della favola e, poi, della prostituzione minorile a Calcutta (senza, però, entrare in tutte le molteplici problematiche dell’India).
Per la seconda pecca dobbiamo avvertire il lettore che faremo lo spoiler del finale e, quindi, meglio non proseguire se non si è ancora letto il libro.
Da donna posso affermare che nessun uomo può veramente capire cosa significhi lo stupro per una di noi e tanto meno rimanere incinta di uno, o non si sa quale tra più stupratori. Non ci si sente ‘incinte e future madri’ come se niente fosse. Al contrario, si sente crescere in sé parti di un mostro che se nascesse avrebbe le fattezze anche del padre e, quindi, sarebbe la continua riproposizione di una violenza inaccettabile, esecrabile, viscerale, vomitevole e imperdonabile – sia per una donna sia per un uomo (pensiamo solamente a ciò che stanno rivendicando come lecito i soldati israeliani contro i prigionieri palestinesi, come denunciato da B’Tselem, o i militari statunitensi ad Abu Ghraib).
Sono pochissime le donne (a meno di non essere costrette dalla propria religione o da una cultura patriarcale) che accettano di portare avanti una simile gravidanza e, se lo fanno, la scelta è difficile, richiede tempo e processi psicologici e mentali che, nel libro, mancano totalmente. Qui, dove l’autore avrebbe dovuto scavare a fondo, si sofferma sulla metafora del seme. E allo stesso modo scorrono i capitoli successivi con la nascita e la crescita fino a mezzo secolo (sic!) di un bambino che nemmeno una volta suscita rabbia, ribrezzo, tristezza o dolore nella donna che l’ha concepito tra escrementi e sangue, violenza, sevizie e stupri.
Persino a una donna forte, indipendente e che viveva un’epoca di grandi contraddizioni ma anche solidale e di forte impegno sociale e politico, come Franca Rame, sono occorsi ben 14 anni per ammettere che Lo Stupro (scritto nel 1975) era un monologo che nasceva dalla sua esperienza personale, quella di aver subito come sfregio, affronto e punizione per le sue idee politiche, il 9 marzo 1973, il rapimento da parte di cinque neofascisti, che poi l’avevano seviziata e stuprata a turno. Questa Hélène che si sente colpevole di non si sa bene cosa (di essere nata in un Occidente opulento e consumistico, neo-colonialista e capitalista nel quale vivrà, però, placidamente per mezzo secolo cullandovi il suo adorato figlio, senza far niente?) e alla fine torna in Africa per morire sotto il baobab, nato dal seme che era appartenuto al fratello (deceduto abbastanza stupidamente per setticemia, dopo un rito con una mater – a metà strada tra l’oracolo di Matrix e la strega di Hänsel e Gretel – nel quale gli avevano inserito sotto pelle il seme della sorella), è davvero poco credibile dal momento stesso in cui pensa di avventurarsi da sola in terra di bracconieri.
Ecco, un buon editor in quel punto avrebbe fermato Pozzi e gli avrebbe chiesto di fare un passo indietro. Gli uomini possono creare, ma pro-creare resta una prerogativa della donna e quel delicato processo, persino nel migliore dei casi vissuto tra mille contraddizioni e sconvolgimenti ormonali, è un affare troppo complesso per risolversi, soprattutto dopo giorni e notti di violenza, in un più su un test di gravidanza; così come infastidirebbe qualsiasi donna descrivere il figlio di “maledette bestie, destinate alle torture più spietate degli inferi” come un giovane dallo sguardo “ammaliante”, dal “fisico statuario e possente”, che “emana un fascino selvaggio e al contempo raffinato”. Spiace, ma questa parte davvero non regge, pecca di naïveté o eccesso di buonismo.
* Alexander Pope, An Essay on Criticism
(1) https://www.inthenet.eu/2019/10/09/festival-dello-spettatore-2019/
(2) https://www.inthenet.eu/2024/03/08/venduta/
venerdì, 30 agosto 2024
In copertina: La copertina del Libro (particolare dell’illustrazione di Federica Palatucci)