La censura dell’algoritmo o la pervicace stoltezza dell’italiano medio?
di Simona Maria Frigerio
In questi giorni è stato pubblicato un interessante articolo a cura dell’avvocato Angelo Di Lorenzo (1) che ha esaminato il Digital Service Act (2) alla luce della sentenza del 5 giugno 2024 n. 9653, emessa dal Tribunale civile di Roma, nella quale “si è affermato il principio di libertà delle manifestazioni del pensiero ed informazione di Utenti delle piattaforme social che forniscono servizi di hosting (archivio e condivisione di dati, contenuti audiovideo e opinioni), soprattutto se l’attività degli Utenti ha una finalità informativa e, ancor di più, se è fatta nell’esercizio delle funzioni giornalistiche, sia in forma individuale sia anche in forma associata o professionale”.
Perché questa sentenza è importante? Facciamo alcune premesse – sempre attingendo all’articolo a cura di Di Lorenzo e rimandando i nostri lettori alle note con i documenti originali per farsi un’idea propria – e poi vi racconteremo di quanto appena capitato a me, giornalista regolarmente iscritta all’Ordine.
I social: dalla censura dei proprietari alla ‘disinformazione’
Finora in molti hanno affermato che, essendo le piattaforme social prodotti di aziende private, i proprietari potessero decidere se e cosa pubblicare – operando già una censura che sappiamo andare ben al di là dei contenuti illegali (come la violenza esplicita o la pedopornografia). Ora, visto che gli stessi proprietari guadagnano sulla pubblicità che gli utenti si debbono sorbire, con il proliferare dei social, sarebbe facile per gli utenti ribellarsi alle maglie di una censura illegale (in quanto lesiva del diritto di opinione, garantito dalla Costituzione anche in Italia), passando a gestori diversi. E però il potere, in Europa, sempre più oligarchico, non solamente ha compreso questo ‘pericolo’ (e non a caso vediamo continui bandi a piattaforme troppo ‘libere’ praticati in Stati diversi e per ragioni diverse) ma “ha capito che la diffusione dell’informazione globale riesce a influenzare i processi di elaborazione delle politiche e indirizzare l’opinione pubblica”(1) e, per questa ragione (sempre come leggiamo nell’articolo): “si è letteralmente inventato il concetto di ‘disinformazione’ che, in pratica, va a sostituire quella che è stata tradizionalmente la funzione della censura”.
Ora, sebbene si dovrebbe definire ‘disinformazione’ solamente “un’informazione rivelatasi falsa o fuorviante, concepita, presentata e diffusa a scopo di lucro o per ingannare intenzionalmente il pubblico”, ben sappiamo che tale aggettivo – che è andato a sostituire quello di contro-informazione – è stato ed è applicato costantemente a tutte le opinioni che divergono dalle scelte della politica della Commissione Europea. Facciamo solo due esempi. Il primo, l’origine del virus che provoca la Covid-19, e la cui possibile fuoriuscita da un laboratorio è stata, prima, negata recisamente e, poi, considerata plausibile dagli stessi che avevano censurato chi ventilava tale possibilità (3). Secondo, le critiche al vaccino non immunizzante (la cui inoculazione, però, era la condizione sine qua non per lavorare per milioni di persone in tutta Europa), sono state continuamente cancellate dai social e solamente ora la stessa AIFA ammette: “«allo stato attuale, nessun vaccino COVID-19 approvato presenta l’indicazione prevenzione della trasmissione dell’infezione dall’agente SARS-CoV-2»” (4) – peccato che per anni chi leggesse semplicemente il ‘bugiardino’ e ne ‘rivelasse’ il contenuto era additato come ‘terrapiattista’ e, magari, rischiava anche il posto di lavoro se era medico o cattedratico.
Dal Forum Economico Mondiale alla Commissione Europea
Facciamo un passo avanti. Come leggiamo nell’articolo (1): “Dal 2014 il World Economic Forum (WEF) ha iniziato a sostenere che il «bene comune» richiede la lotta alla disinformazione, sviluppando tecniche e tecnologie tese al controllo della circolazione dell’informazione; tra queste le prime ‘tecniche’ furono: a) gli algoritmi, cioè criteri artificiali impiegati per filtrare le informazioni vere o disinformative secondo i parametri impostati; b) lapubblicità digitale, che dipende spesso dal numero di click e premia o identifica i contenuti sensazionalistici e virali; c)i servizi automatizzati (denominati ‘bot’) che amplificano artificialmente la diffusione dell’informazione; d)le cosiddette ‘fabbriche di troll’, cioè falsi profili, privi di un utente reale e a volte orchestrati su vasta scala che svolgono un ruolo di amplificatore di alcune notizie; e)i segnalatori attendibili (c.d.fact checkers), a volte automatizzati, che si assumono il compito di segnalare cosa sia vero e cosa no, e in caso censurare ciò che è classificato come ‘disinformazione’”.
Non approfondiremo tutti questi temi ma ci soffermeremo sulla pubblicità digitale e sui ‘segnalatori attendibili’. Ora, per quanto riguarda la prima, come scrivevamo nel nostro articolo su NewsGuard (5), lo stesso è “partner di tre tra le cinque maggiori agenzie di pubblicità a livello mondiale e si vanta di riuscire a influenzare i pubblicitari in modo che non investano nei siti di informazione ritenuti dalla stessa non affidabili, ri-direzionando le loro risorse verso il giornalismo che, sempre NG, giudica di qualità. Ma quale sarebbe, ad esempio in Italia, tale giornalismo che non cede mai alla propaganda o alla disinformazione, è super partes, apolitico e affidabile? Tre testate in particolare: La Stampa, Repubblica e il Corriere della Sera”. Quindi, la nostra libertà di informarci è ormai affidata a un’estensione del browser di ricerca che, guarda caso, in Italia dà il semaforo verde (letteralmente) a tre testate la cui propaganda di guerra ci ha lasciati basiti fin dal 22 febbraio 2022.
Pensiamo a questo articolo del Corsera di Andrea Marinelli e Guido Olimpio, intitolato: “Le intercettazioni dei soldati russi al fronte: «Non abbiamo munizioni, dobbiamo usare le dita come baionette?»” (datato 6 settembre 2023, 6). Nel frattempo, però, l’Operazione Speciale Militare russa è continuata e sappiamo bene con quali mezzi tecnologici (altrimenti come avrebbero distrutto, le Forze armate russe, i Bradley e i Leopard, inviati dagli States e dalla Germania? Con le dita?).
Citiamo, a caso, questo titolo di Repubblica: “A Bakhmut l’esercito ucraino ha «raggiunto i suoi obiettivi al mille per mille», è stato «un grande successo strategico»” (ossia, il 6 marzo 2023, senza alcun senso critico o del reale i colleghi sottoscrivevano come corrispondente alla realtà la dichiarazione del consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Mykhailo Podolyak, 7). Oggi, come ben sappiamo, Bakhmut è nuovamente Artemovsk.
E finiamo con La Stampa usando un articolo di controinformazione tratto dal sito di Nicola Porro (8), che si riferisce alla foto qui sotto riportata: “Il titolo è corretto. D’impatto. Fattuale. ‘LA CARNEFICINA’, scritto così, a caratteri cubitali e apposto su una foto drammatica. La prima pagina della Stampa, che migliaia di italiani si sono ritrovati in edicola, colpisce al cuore. Si vede un anziano disperato coprirsi il volto con le mani. Piange. Intorno a lui una distesa di cadaveri maciullati: braccia mutilate, arti smembrati, urla di dolore. È l’immagine plastica, perfetta, che racconta la tragedia che si sta svolgendo in Ucraina. C’è solo un piccolo problema: si tratta di un fake, o meglio di una storia raccontata male, di quelle che meriterebbero uno stuolo di debunker e le reprimende dei News Guard di turno”. Si può solo ringraziare Giuseppe De Lorenzo per la sua onestà intellettuale e senso critico.
E veniamo ai fact-checker. Tra questi vi è il sito di Enrico Mentana, giornalista professionista, con una lunga carriera alle spalle – che dovrebbe garantirci la qualità e veridicità degli articoli di Open, visto che al termine del pezzo, firmato da David Puente, e datato 14 febbraio 2023 (che avevamo già contestato a suo tempo, 10), si specifica che lo stesso “contribuisce a un progetto di Facebook per combattere le notizie false e la disinformazione nelle sue piattaforme social”. L’articolo di Puente si intitola: “L’ombra del sabotaggio su Nord Stream: l’infondato articolo del Pulitzer Hersh che incolpa Usa e Norvegia”. La conclusione dello stesso, che equivale al voto del professore al tema dello studente svogliato è: “Valutazione: ‘FALSO’ – «Contenuto senza nessuna base nei fatti. Teorie del complotto che attribuiscono la causa di un evento all’opera segreta di individui o gruppi, che possono citare informazioni vere o non verificabili, ma presentano conclusioni inverosimili. Esempio: dichiarare, senza alcuna prova, che membri del governo sono direttamente responsabili di un attacco terroristico per offrire un pretesto per entrare in guerra»”. Ora, dopo circa un anno e mezzo, pare che non riuscendo più a coprire il fatto che qualcuno abbia effettivamente sabotato il Nord Stream 2 e non riuscendo nemmeno ad addebitare la colpa anche questa volta al Presidente Putin, il Corsera, ad esempio, traducendo (ancora una volta senza il dovuto senso critico) titola: “Sabotaggio Nord Stream, la ricostruzione del WSJ: la notte ad alto tasso alcolico e lo yacht preso a noleggio. «Zelensky sapeva»”, ossia racconta una versione a Stelle e Strisce che lascia come minimo perplessi. Sarebbero stati dei mezzi ubriaconi con l’approvazione implicita/esplicita di Zelensky/Zaluzhniy a mettere in atto un piano che Open (nell’articolo da fact-checker) definiva un “fantomatico complotto”. Ora parrebbe che – Open permettendo – un complotto ci sia stato. E però, vista la complessità di tale operazione, i suoi costi e l’addestramento necessari, oltre che le tecnologie, e visto chi ne ha tratto vantaggio e le coperture ricevute in questi mesi per insabbiare i tentativi di indagine succedutisi, dubitiamo che i colleghi del Wall Street Journal ci abbiano azzeccato. Sarebbe forse il caso che Open agisse contro WSJ o, meglio, che giornalisti d’inchiesta seri e con fonti attendibili collegassero quell’ultimo anello mancante, ossia quello tra Zelensky e gli US per scoprire, magari, i veri mandanti?
Il Digital Service Act tomba della controinformazione?
Torniamo al nostro articolo sulla censura, pubblicato da StudioCataldi.it. Nell’ottobre 2022 arriva il Digital Service Act “che ha recepito l’intera impostazione di lotta alla disinformazione ideata dal WEF” e, in breve, “il DSA (quindi la Commissione Europea) ha assunto il controllo del controllore dei servizi di hosting e delle piattaforme online”, ovvero – come scrivevamo nell’inchiesta già citata (2) – le piattaforme online maggiori devono rispondere del loro operato e saranno controllate (e, nel caso, bloccate) da appositi incaricati dalla Commissione Europea se permetteranno ai loro user di fare ‘disinformazione’, ovvero di non adeguarsi pedissequamente alle veline del potere ed essere critici verso ciò che leggono – e che scrivono testate che hanno ottenuto il ‘semaforo verde’ di NewsGuard.
Ora, solamente citando una manciata di articoli abbiamo visto quanto l’informazione in Italia sia ormai facilmente contestabile, se solo si fa passare qualche mese dalla pubblicazione di un articolo. Non aggiungiamo nulla su Enti preposti alla sorveglianza che, magari, prima avallano e poi smentiscono le proprietà di sostanze farmacologiche, consentendo ai governi di togliere il lavoro per mesi o anni agli individui e di applicare norme lesive delle libertà personali in base a cosiddetti vaccini che avrebbero dovuto fermare il contagio e, al contrario, non sono mai stati immunizzanti.
La sentenza del 5 giugno 2024 n. 9653 e il mio caso con LinkedIn
Grazie forse anche alla succitata sentenza posso scrivere di avere finalmente vinto un ricorso contro la censura di un social. Come libera cittadina e come giornalista, proprio in base a tale sentenza, posso esprimere una mia opinione. Dopo avere ascoltato le notizie brevi di una tv nazionale e visto l’ennesima pubblicità che considera le donne delle minorate o delle ignoranti patentate, ho scritto d’impulso:
“La tv italiana è insopportabile. Grande preoccupazione per un palestinese che avrebbe rubato un’arma… Israele ammazza 40mila persone con bombe che nemmeno a Hiroshima… E l’informazione italiana si preoccupa per un individuo con un’arma. Un bazooka contro un apriscatole! Ma ormai noi siamo il popolo che ha bisogno della pubblicità per sapere che può infilarsi un assorbente interno anche in acqua!”
A corredo ho inserito questa foto di Hosny Salah da Pixabay:
Niente di più di un corpo coperto da una bandiera con intorno le persone che si dolgono per l’ennesimo giovane morto in Palestina.
E però LinkedIn mi ha prontamente informata che: “Il post che hai pubblicato non può essere visibile oltre i tuoi collegamenti di 1° grado, in base alle nostre policy in materia di contenuti espliciti. Di conseguenza, ne abbiamo limitato la distribuzione”.
Al che mi sono domandata quale fosse il contenuto ‘esplicito’ (che, in italiano, significa: “espresso con chiarezza e precisione, inequivocabile”) che avrei dovuto esplicitare, al contrario, con un giro di parole. Che Israele ha già ammazzato 40mila persone (di cui circa 18mila minori)? Ma è fatto risaputo e comprovato. Che la sproporzione tra quanto sta accadendo al popolo palestinese e quanto accaduto il 7 ottobre 2023 è incommensurabile? Oppure è il paragone tra un bazooka e un apriscatole che è parso ‘inappropriato’? Eppure abbiamo un’arma personale, da una parte, e ciò che descrive The Cradle in questi termini: “Le bombe sganciate da Israele sulla Striscia di Gaza superano per potenza la bomba nucleare con cui gli Stati Uniti colpirono la città giapponese di Hiroshima durante la Seconda guerra mondiale” (11).
Oppure era troppo esplicito il commento sull’assorbente? In questo caso, però, sarebbe meglio accanirsi su quei pubblicitari che mostrano assorbenti su schermi piatti giganti all’ora di cena, magari con quella dose di kitsch in più che permette loro di trasformare una vulva in un assorbente sporco che canta! O ancora, mi sono chiesta se, tra tanti programmi dedicati ai più trucidi omicidi, sia stato un semplice corpo avvolto con cura e amore in una bandiera ad aver toccato le corde della sensibilità degli algoritmi di LinkedIn.
Ma per una volta (forse anche grazie alla sentenza romana?) ho avuto ragione dell’algoritmo e il mio ricorso è stato accolto con tale ‘sentenza definitiva’: “Abbiamo rimosso il limite di distribuzione del tuo post. Dopo aver riesaminato il tuo post, abbiamo stabilito che è conforme alla nostra Informativa sulla community professionale. Ora il contenuto può essere distribuito oltre la tua rete. Grazie di nuovo per aver scelto di far parte della community di LinkedIn e per averci aiutato a prendere la decisione giusta”.
Giusta? Giusto, sbagliato, vero, falso, realtà, menzogna: tutti termini suscettibili di essere rivisti a seconda del periodo storico e delle nostre capacità tecnologiche per verificarne la veridicità. E però, se non si resta da soli, in silenzio, forse si può ancora fare massa critica. Buon ascolto!
Gino Paoli con Quattro amici al bar:
https://www.youtube.com/watch?v=jju-l2CWK1Q
(1) Per l’articolo completo a cura dell’Avvocato Angelo Di Lorenzo, presidente Avvocati Liberi, rimandiamo a: https://www.studiocataldi.it/articoli/46873-la-censura-20.asp
(2) L’approfondimento sulla D.S.A.: https://www.inthenet.eu/2023/09/22/la-censura-come-forma-di-liberta/
(3) Si veda, ad esempio: https://oversight.house.gov/release/classified-state-department-documents-credibly-suggest-covid-19-lab-leak-wenstrup-pushes-for-declassification
(4) Si veda: https://www.dicosicontiamoci.it/post/aifa-il-vaccino-non-impedisce-il-contagio
(5) La nostra inchiesta su NewsGuard: https://www.inthenet.eu/2023/02/10/newsguard/
(7) https://www.repubblica.it/esteri/2023/03/06/diretta/guerra_ucraina_russia_news_oggi-390715760
(8) https://www.nicolaporro.it/quella-foto-fake-pubblicata-dalla-stampa-in-prima-pagina/
(10) La nostra controinchiesta sul NS2: https://www.inthenet.eu/2023/02/24/ns2-chomsky-prima-di-hersch/
(11)
venerdì, 6 settembre 2024
In copertina: Big Brother, foto di Pete Linforth da Pixabay