
«Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri»*
di Luciano Uggè (traduzione di Simona Maria Frigerio)
Gli US, autoproclamatisi sceriffi della democrazia, vantano dati davvero sconcertanti quando si affrontino temi quali eguaglianza e pari opportunità all’interno dei suoi confini.
Gli afroamericani, rispetto alla popolazione totale, sono solo il 13% ma rappresentano circa il 40% dei detenuti presenti nelle carceri private o pubbliche, federali o statali statunitensi. Secondo i dati del Sentencing Project, gli afroamericani “sono incarcerati a un tasso cinque volte superiore a quello dei bianchi” (in alcuni Stati si raggiungono le dieci volte). Se è vero che questo può essere dovuto a disparità all’accesso agli studi, a servizi sociali inadeguati e alla povertà dei non wasp, altri fattori devono per forza contribuire a tale dato macroscopico.
Secondo la Equal Justice Initiative (1) “gli Stati Uniti incarcerano i propri cittadini più di qualsiasi altro Stato. L’incarcerazione di massa impatta sproporzionatamente sulla popolazione povera e di colore e non rende i cittadini più sicuri”. Le cifre sono implacabili: nonostante gli US contino per il 5% della popolazione mondiale, quasi il 25% della popolazione carceraria mondiale è statunitense. Anche a livello economico una tale scelta repressiva è un fardello che pesa parecchio sulle tasche dei contribuenti: “La nostra spesa carceraria ha raggiunto gli 87 miliardi nel 2015, con un aumento del 1000% dai 7,4 miliardi di dollari spesi nel 1975”. Del resto, nel “1972, vi erano solo 200mila detenuti negli States. Un numero che è cresciuto a 2,2 milioni” (1) e un dato sul quale torneremo quando scriveremo della ‘guerra alla droga’. Inoltre, tra il 1980 e il 2017 anche il numero delle donne incarcerate è aumentato drasticamente del 750%, raggiungendo oltre 225mila unità. Fa ancora più riflettere un altro dato, ossia che oggigiorno quasi 10milioni di statunitensi “inclusi milioni di bambini, hanno un familiare in prigione”, oltre 4 milioni e mezzo non hanno diritto di voto perché condannati in passato, e “ogni anni, si perdono 87 miliardi del PIL a causa dell’incarcerazione di massa”.
Le associazioni come Equal Justice Initiative puntano il dito contro il razzismo, tuttora persistente nella società statunitense, che vede gli afroamericani (ma potremmo anche aggiungere i latinoamericani e altre minoranze) come persone più ‘pericolose’ o ‘meno civilizzate’ degli wasp, ovvero dei bianchi di origine anglosassone e protestante. Ben poco si è fatto per restituire dignità e dare uguali opportunità ai discendenti di quei 13 milioni di africani deportati negli States come schiavi tra il 1501 e il 1867 – il che ha anche impoverito il continente africano di bambini, donne e persone nel vigore degli anni, privandolo così del proprio futuro. Equal Justice Initiative dichiara apertamente che sussiste tutt’oggi, nonostante le campagne a suon di bombe per difendere i diritti negli altri Paesi, una forma di ‘gerarchia razziale’ all’interno degli US.
Le prigioni private: il business che ha fatto crescere il volume dei detenuti
Perché le prigioni private sono un grosso affare? Non solamente per i fondi che si ottengono dalle amministrazioni pubbliche, ma anche perché si può obbligare i detenuti a lavorare e a farlo gratuitamente.
Durante il suo primo mandato, Joe Biden (a differenza dei suoi predecessori, primo fra tutti Bill Clinton, il quale con il Violent crime control and law enforcement act, del 1994, introdusse la regola per cui chi si macchia di tre reati è condannato a pene più severe, stanziando altresì 30miliardi di dollari di budget e ottenendo ‘stranamente’ di vedere raddoppiare la popolazione carceraria degli Stati Uniti, in particolare afro-americana), firmava un ordine esecutivo, il 26 gennaio 2021, affinché il Dipartimento di Giustizia statunitense non rinnovasse i contratti con le prigioni private federali, affermando che: “il sistema di carcerazione statunitense è troppo costoso e non rende più sicura la società. «Per ridurre i livelli di carcerazione», si leggeva nel documento, «dobbiamo ridurre gli incentivi a incarcerare basati sul profitto, eliminando gradualmente la dipendenza del Governo federale dalle prigioni gestite da privati»” (2).
Tale cambio di rotta non ha però avuto alcuna influenza sull’Immigration and Customs Enforcement, ossia l’agenzia governativa che si occupa della sicurezza dei confini e, dal 2021, “il numero di persone detenute dall’ICE è cresciuto del 153%” (2). Nello stesso report leggiamo più oltre: “A settembre dello stesso anno il 79% dei detenuti sotto la custodia dell’ICE si trovava in prigioni private. A luglio del 2023 la percentuale di detenuti in carceri private dell’ICE era salita al 90,8%” (2). Ovviamente anche a livello statale le cose non sono cambiate e 28 su 50 Stati, negli US, tuttora si avvalgono di prigioni private.
Nonostante le prigioni private – con gli utili che derivano alle aziende che le costruiscono e gestiscono – siano una realtà molto radicata negli States, anche in altri Paesi la loro esistenza sta affermandosi, come nel Regno Unito, in Australia e in Nuova Zelanda – dove, però, ci risulta una sola struttura di tal genere, l’Auckland South Corrections Facility. Vi è anche differenza nel controllo esercitato dallo Stato sulle carceri private. “Nel Regno Unito, ad esempio, i penitenziari privati sono sottoposti esattamente agli stessi regolamenti di quelli pubblici e devono garantire gli standard minimi dettati dalla legge, il cui rispetto è controllato rigorosamente dagli ispettori ministeriali, e la cui violazione comporta una decurtazione della cifra corrisposta dallo Stato per ogni detenuto” (3).
Del resto negli States, la carcerazione non ha i medesimi fini che in Italia, ossia il recupero del detenuto – nel rispetto della sua dignità umana (anche se, spesso, tutto ciò resta lettera morta, come altri passaggi della nostra Costituzione, 4). Non sarà un caso che in tutte le serie crime a Stelle e Strisce (anche quelle che rivendicano di essere dalla parte delle ‘vittime’ di abusi e crimini sessuali, come Law & Order. Unità vittime speciali), sia normale vedere i poliziotti o i procuratori ricattare, intimorire o minacciare il sospettato di violenze sessuali una volta che entrerà in carcere. Ed è il XIII emendamento nel 1865, che sanciva l’abolizione della schiavitù, ad affermare che la stessa, così come “la servitù contro la propria volontà”, saranno vietate “a meno che non siano una punizione per il crimine per il quale la parte sarà stata regolarmente condannata”. Ecco perché non fu abolito il lavoro forzato, se previsto come pena in seguito a una condanna. E non sarà un caso, quindi, che la Louisiana – ‘derubata’ dei suoi schiavi – concesse in appalto la conduzione della sua prima prigione statale a privati già nel lontano 1844.
Sarà però la ‘guerra alla droga’ (a cui abbiamo già accennato), a fine anni 70 e primi anni 80 del Novecento, a far scoppiare la bolla dei reati (anche minori) e, nel 1983, l’Amministrazione Reagan – liberista par excellence – dato il sovraffollamento delle carceri, stipulerà “per la prima volta al livello federale un contratto con la neonata Corrections Corporation of America (CCA) per l’appalto della progettazione, la costruzione, il finanziamento e la gestione di un nuovo penitenziario a Houston, Texas” (3), che la società inaugurerà già l’anno seguente.
L’Italia: un Paese, almeno sulla carta, più civile
La Costituzione italiana sottolinea il concetto di rieducazione e reinserimento del detenuto tra gli scopi della pena. I detenuti hanno il diritto a essere trattati con rispetto e dovrebbero essere fornite loro opportunità concrete per studiare, apprendere una professione, confrontarsi – se il caso – coi propri ‘demoni’ (ossia avere l’assistenza di uno psicologo o un terapeuta adeguato), e responsabilizzarsi nei confronti di se stessi e dell’intera società.
In Italia vi sono carceri modello, come Bollate dove, nonostante il sovraffollamento, si offrono percorsi di studio per i detenuti, vi è un teatro che ospita laboratori e spettacoli, un asilo nido che accoglie, tutti insieme, i figli dei dipendenti e delle famiglie del territorio, ma anche quelli delle detenute; e poi ci sono aree diverse per la pratica religiosa (che può non essere per forza quella cattolica), palestre e cortili in cui giocare a tennis, a calcio o a pallavolo. Luoghi, in pratica, dove si può costruire anche una nuova identità – responsabile e consapevole, pronta a rientrare un giorno nella società in maniera positiva.
Un’altra eccellenza è la Casa di Reclusione di Massa, dove i detenuti escono dalle celle diverse ore al giorno, così da poter lavorare (per libera scelta e non perché condannati forzosamente, anche se sotto-pagati e su questo si dovrebbe discutere), studiare, fare attività varie e avere scambi con gli altri detenuti, e i molti volontari, con i quali da anni auto-producono e pubblicano Il Ponte, un periodico che raccoglie le loro voci, contenute in articoli, approfondimenti e racconti. Il periodico è impaginato con grande professionalità e, a ogni numero, i detenuti scelgono un tema da approfondire – come ad esempio, a ottobre del 2024, ‘le emozioni’. Un ragionare che serve sia al detenuto per confrontarsi con il proprio sentire e vivere la condizione carceraria, ma anche per comunicare a chi vive, al di là delle mura, attraverso un ‘ponte’ di parole, quanto sia importante tenere aperto un canale di comunicazione empatica con chi è rinchiuso in una cella.
Ovviamente gli esempi in Italia non sono tutti così virtuosi e le situazioni di sovraffollamento, la carcerazione per i tossicodipendenti, l’isolamento o la restrizione in cella per oltre 20 ore al giorno, oltre alle violenze e ai maltrattamenti (Santa Maria Capua Vetere è solo un esempio, 5), sono all’ordine del giorno; ma sicuramente la nostra visione della ‘pena’ è ancora legata più a Cesare Beccaria che non a Ronald Reagan.
* Voltaire
(1) Per approfondire: https://eji.org/
(2) Vedasi: https://www.ilpost.it/2024/07/14/societa-che-gestiscono-prigioni-private-stati-uniti-sperano-trump/
(3) Per approfondire: https://extremaratioassociazione.it/privatizzare-le-carceri-non-e-buona-soluzione-ecco-perche
(4) La Costituzione italiana, all’articolo 27 comma 3°, stabilisce che le pene devono rispettare la dignità delle persone, vietando trattamenti inumani, e devono mirare alla rieducazione del condannato. L’articolo 27 vieta anche la tortura e trattamenti inumani o degradanti
(5) Per maggiori dettagli sulle ultime accuse di violenza da parte delle guardie carcerarie: https://www.editorialedomani.it/politica/italia/carcere-violenze-trapani-santa-maria-capua-vetere-pwwmgf0c
venerdì, 7 marzo 2025
In copertina: Alcatraz, al centro di un film culto come L’isola dell’ingiustizia con Kevin Bacon; foto di Brigitte Werner da Pixabay