
“La vida es sueño”
di Simona Maria Frigerio
Mutuiamo il sottotitolo di questa recensione dal capolavoro di Pedro Calderón de la Barca – nato solo due anni dopo la morte di Filippo II° – perché, in un certo senso, quel dramma in tre atti traslava su un piano filosofico le medesime vicende di Filippo II° di Spagna e dell’infante Don Carlos, in scena – a Siena – nella versione di Marco Filiberti che si ispira e riverbera dell’immaginazione poeticamente tragica di Friedrich Schiller, con qualche sprazzo del Filippo di Vittorio Alfieri e molti del Don Carlo di Joseph Méry e Camille du Locle – librettisti dell’opera omonima verdiana (che, sarà, nel tempo, rimaneggiata in quanto giudicata eccessivamente verbosa). Questo perché anche il Don Carlos di Schiller – come Sigismondo della Vita è sogno – è un figlio alienato all’amore paterno, affetto da sogni/incubi/desideri che ne funestano l’esistenza, incerto sulle proprie scelte e azioni – come può esserlo qualsiasi giovane messo di fronte a imprese forse più grandi lui, in anni oscuri. E però laddove la gioventù matura in una saggezza adulta e capace non solamente di perdono ma anche di assunzione di responsabilità, come nel dramma di de la Barca; il Don Carlos di Schiller comprenderà il perdono ma non sarà mai in grado di opporsi efficacemente a Filippo II°.
I personaggi dal punto di vista del côté storico
Oltre a un romanzesco Don Carlos, in scena vediamo Filippo II°, figlio di Carlo V°, reazionario cattolico, paladino della Controriforma e della Santa Inquisizione, persino più bellicoso di Luigi XIV° di Francia, tanto da non essersi fermato nemmeno di fronte al disastro della cosiddetta ‘invincibile armata’. Tra le sue azioni più oltranziste e meno lungimiranti, aver perseguitato le minoranze ebraiche (i Marranos) e arabe (i Moriscos), spingendo un’intera classe di artigiani e mercanti, florida e utile alla Spagna, ad abbandonare il Paese. Questo fatto, unito alle ingenti spese militari e all’incapacità di circondarsi di ministri versati in economia e finanza – scelta figlia di un assolutismo elitario e plutocratico – nonostante le ricchezze trafugate ai popoli assoggettati nelle colonie d’oltreoceano – porterà la Corona a dichiarare bancarotta.
Il personaggio storico è quindi più aderente a quello tragico di quanto non lo fosse l’Infante col Don Carlos di Schiller (secondo personaggio) – visto che l’Infante spagnolo fu cagionevole di salute e mentalmente (a causa della consanguineità tra gli Asburgo); innamorato non della matrigna (Elisabetta di Valois) ma di Anna d’Asburgo; e non è stato storicamente provato che simpatizzasse per i ribelli delle Fiandre. Mentre i suoi dissidi col padre (nel dramma come nella vita) potrebbero tradursi con lo scontro tra due personalità estraniate affettivamente.
Terzo personaggio in scena, anch’egli molto aderente a quello storico, è Fernando Álvarez de Toledo y Pimentel, III° duca d’Alba, che fece propria la persecuzione degli eretici (quasi un Gary Oldman d’annata in Dracula di Bram Stoker), comminando migliaia di condanne a morte nei territori sotto il suo giogo e mettendo a ferro e fuoco interi villaggi per sottomettere gli altri (alla sua figura si devono le immagini forse più pregnanti dello spettacolo, di cui diremo successivamente). Per le sue atrocità (che oggi definiremmo crimini di guerra) fu soprannominato dai protestanti olandesi il ‘macellaio delle Fiandre’. Inoltre, la sua (e di Filippo II°) guerra contro quelli che sarebbero diventati il Belgio e i Paesi Bassi, procurò un ulteriore aumento delle spese militari, tale che l’impero (dove ‘non calava mai il sole’) sarebbe andato in bancarotta nuovamente nel 1575. Mentre le continue guerre necessitavano di aumenti delle tasse che, nei Paesi Bassi, danneggiarono l’economia locale suscitando continue frizioni con le Corti Olandesi – meno seraficamente acquiescenti delle Spagnole.
Il quarto personaggio è Elisabetta di Valois, amica (ma, a livello storico, mai amante/amata) di Don Carlos, madre di tre figlie femmine di Filippo II°, tra le quali la prediletta Isabella Clara Eugenia, che governerà come principessa sovrana, proprio i contesi Paesi Bassi spagnoli. Al di là del fatto che l’amore per Don Carlos sia solo mito tragico, vero è che la sua breve vita – tra parti e aborti spontanei – non fu felice e, probabilmente, fu stroncata dalle stesse cure mediche – basate su purghe, clisteri e salassi, nonostante le emorragie che già subiva a ogni aborto. Pare che Filippo, però, a differenza del personaggio di Schiller/Verdi le fosse realmente legato e spesso le fu accanto quando stava male.
Ultimo tra i cinque protagonisti di questa versione senese, Rodrigo, marchese di Posa, frutto di fantasia, è la personificazione di un ideale di impegno e libertà che, forse, oggi è il messaggio più pregnante: in tempi bui o la gioventù torna all’ideologia e a un progetto politico antagonista, oppure l’assolutismo colonialista di ieri, e la plutocrazia neo-imperialista di oggi, impereranno col loro carico di guerra, morte, miseria e sopraffazione.
Terminata la disanima storica, veniamo al Kammerspiel in due atti di Marco Filiberti in scena al Teatro dei Rozzi di Siena.
Gesamtkunstwerk: da Wagner a Marco Filiberti
La scelta dell’autore/regista è quella di riscrivere e proporre una propria versione della tragedia di Schiller partendo dalla Gesamtkunstwerk (ossia l’opera d’arte totale), termine coniato da Trahndorff ma reso famoso da Richard Wagner. Coreografie, recitazione (non recitar cantando o vera e propria opera lirica), musica, qualche vocalizio, light designing e una scenografia minimal per rielaborare, attualizzandolo, quel dramma che può riassumersi più che ne I dolori del giovane Werther nell’antagonismo tra un assolutismo dispotico e reazionario (Filippo/Duca d’Alba) e il desiderio dei giovani di sovvertire il potere costituito per instaurare una specie di Città del Sole, dove Rodrigo (molto più di Don Carlos), come Tommaso Campanella, sembra esser nato per “debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”.
Partiamo dalla scenografia che ci pare rimandare ad Amor Sacro e amor profano di Tiziano Vecellio. La lunga pedana fa, non a caso, da base (come il sarcofago del quadro) ai duetti tra Elisabetta e Don Carlos (amor profano?) e tra la stessa e il marito Filippo II° (amor sacro?). Ma si presta bene anche come semplice panca per il gioco di luci (perfettamente conseguito) che ci restituisce il clima delle segrete dove Don Carlos sarà rinchiuso nel finale.
Le immagini più forti e pregnanti sono, in ogni caso, quelle legate direttamente o indirettamente al Duca d’Alba. Il suo giuramento all’inizio (che rimanda all’Impalatore); la fustigazione (ossia la persecuzione degli eretici che ci ha rammentato, anche nella freddezza del disegno luci, il San Sebastiano di Vincenzo Foppa, ospitato all’Accademia di Brera a Milano); e la croce, sulla quale si impalavano o si mandavano al rogo gli eretici, qui un’antenna televisiva arrugginita, che mostra come ogni cittadino oggi sia schiavo di una nuova forma religiosa (il consumismo) e della nuova propaganda di regime (che non è più imposta dall’Inquisizione o dalla messa all’indice dei libri proibiti ma da una uniformità massmediatica peggiore di quella del Minculpop, e dal divieto ad esempio di ascoltare la versione dei russofoni del Donbass o di manifestare a favore del popolo palestinese).
Qui e là qualche strappo al testo schilleriano si nota anche in altri rimandi, tra i quali quello a Hitler che, però, è affiancato come esempio di dittatore non da Mussolini ma da Stalin. Ora, a parte che grazie alle qualità di stratega di Stalin e al sacrificio di 22milioni di russi, l’Europa si è liberata del nazifascismo, come mai non si inserisce tra i criminali del Novecento Truman, che fece sganciare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki – autentico, ingiustificabile e spietato crimine di guerra? O perché non si accenna a un personaggio come Benjamin Netanyahu, che sta commettendo un genocidio sotto i nostri occhi, con l’appoggio militare statunitense e l’avallo di una comunità internazionale silente o impotente?
Ma andiamo oltre e torniamo alla messinscena. Alcuni momenti coreografici soprattutto degli ensamble hanno una valenza anche espressiva, così come il confronto fisico a due tra Rodrigo e Don Carlos e quello tra Elisabetta e Filippo. Altre volte, però, appaiono forzati laddove la recitazione è sempre puntuale, la dizione precisa, l’uso di accentare le parole dando importanza alla singola sillaba (come insegnava un maestro quale Jean-Marie Straub, che abbiamo ritrovato anche nel buio iniziale per preparare lo spettatore psicologicamente alla visione) ci hanno favorevolmente colpiti e dimostrano le ottime doti attorali dell’intero cast e in particolare degli interpreti di Rodrigo (a tratti alfieriano nel suo impeto rivoluzionario ma capace di contenersi e mai scadere nell’enfasi) e Filippo II° (credibile padre/amante tradito ma dotato di un certo distacco brechtiano quando affronta il ruolo di sovrano assoluto).
Ottimo il disegno luci, non solo à la Rembrandt (dato che il rosso fuoco sa stemperarsi e attingere a tinte fredde laddove vi sia la necessità, come nella scena della fustigazione). Interessante la miscellanea dei costumi con un Rodrigo e un Don Carlos a tratti quasi intercambiabili nel loro amor platonico molto omerico – come non riverberarvi la fedeltà di Patroclo ad Achille? Sebbene qui il novello mirmidone non abbia la forza di urlare contro Filippo II°: “Ettore, credesti forse, mentre spogliavi Patroclo, /di restare impunito: di me lontano non ti curavi, /bestia! Ma difensore di lui, e molto più forte, /io rimanevo sopra le concave navi, /io che ti ho sciolto i ginocchi. Te ora cani e uccelli /sconceranno sbranandoti: ma lui seppelliranno gli Achei”. Eccellente infine il sound-designing e la scelta delle musiche, che ci ha rimandati alla bravura di Luigi Ceccarelli nell’elaborazione digitale live dei suoni per Ermanna Montanari.
Interessante nel complesso il lavoro di Marco Filiberti che rifugge dalle semplificazioni cui ormai siamo abituati andando a teatro: mancanza di costumi, di scene, di testo e di interpreti – spesso ridotto a monologhi o dialoghi spogli e frusti di una stagione teatrale che, di anno in anno, non vede solo il prosciugarsi dei fondi ma soprattutto il prosciugarsi delle idee e della volontà di osare, della volontà di denunciare. Ma come disse Leo De Berardinis: “Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, e il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”.
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro dei Rozzi
via delle Terme, 15 – Siena
mercoledì 26 marzo 2025, ore 21.00
Intorno a Don Carlos: Prove d’autenticità
Kammerspiel in due atti
da Friedrich Schiller
scritto e diretto da Marco Filiberti
coreografie Emanuele Burrafato
con Pietro Bovi, Diletta Masetti, Luca Tanganelli, Massimo Odierna e Giacomo Mattia
scene Benito Leonori
light designer Mauro Toscano
costumi Daniele Gelsi
sound designer Stefano Sasso
trucco e parrucco Roberto Pastore e Marilù Sasso
una produzione Le vie del teatro in terra di Siena con Dedalus S.r.l.
venerdì, 4 aprile 2025
In copertina: Foto di Francesca Cassaro (gentilmente fornita dalla produzione)