
Gli scatti di Oliviero Toscani a Palazzo Blu
di Simona Maria Frigerio
Esiste una sola razza, lo affermava – persino testimoniando in tribunale – il celebre paleontologo Stephen J. Gould, in un Paese, come gli Stati Uniti, dove ancora si utilizza quel termine per distinguere, ad esempio, tra caucasici e afroamericani, e portare avanti idee di determinismo biologico che conducono direttamente a razzismo, suprematismo bianco e xenofobia.
A Pisa, il 17 aprile, è stata inaugurata una retrospettiva (a pochi mesi dalla morte) che raccoglie alcuni tra le migliaia di scatti che Oliviero Toscani ha dedicato alla nostra variopinta umanità – la razza umana, appunto – e a una unicità nella differenza che è fonte di arricchimento per la collettività.
Unendo con equilibrio patina da copertina, scandalo mai volgare, e tematiche del momento (dall’anoressia alla sessualità nel clero, dall’Aids all’omosessualità o alla transessualità esibita), le foto di Oliviero Toscani hanno saputo travalicare l’immagine glamour delle copertine di moda o della pubblicità al servizio del più bieco consumismo per trasformarsi in momenti di confronto (anche acceso) e dialogo, all’interno di una società dai costumi in evoluzione. Come nel caso di Nolita, No. Anorexia, del 2007, che accese i riflettori su una malattia che, se per le indossatrici e per il mondo della moda è questione di immagine, per milioni di giovani donne nel mondo è segno di un profondo disagio (come ogni squilibrio alimentare). La foto divenne un unico manifesto, appeso in piazza San Babila proprio durante la Settimana della Moda milanese.
Forse la migliore campagna di Toscani rimarrà, comunque, quella dedicata al tema della pena di morte, che costò al marchio Benetton il boicottaggio, negli Stati Uniti, di alcuni tra i suoi negozi. Mentre la sfida più ardua, il trimestrale COLORS – fondato nel 1991 dallo stesso Toscani e da Tibor Kalman, designer statunitense di origini ungheresi morto nel 1999 – che ha chiuso i battenti nel 2014, basato sull’idea che le differenze sono positive e tutte le culture hanno lo stesso valore.
Tornando nella prima sala della mostra, rivediamo un ironico Uomo Vogue, con protagonista (nel lontano 1975) Andy Warhol in vestaglia chiara e gambaletti scuri; ironico e trasgressivo anche lo scatto, del 1973, intitolato le Bambole per B&B Italia – in bilico sul fragile confine tra erotismo plasticoso da Barbie e trasgressione glam.
Infine, sempre nella prima sala, vari esempi delle campagne per United Colors, di cui resterà per sempre impresso, nell’occhio della mente, il neonato coperto di sangue e col cordone ombelicale che lo unisce ancora alla madre, mentre un camice verde lo allontana da quell’utero buio e protettivo per un asettico neon. Sotto i riflettori fin dalla nascita: siamo ormai ben oltre i famosi 15 minuti di celebrità… Chi mi ama mi segua per i Jeans Jesus, invece, non ci ha mai convinti ma non per la presunta (o reale, a seconda del credo e della sensibilità individuale) blasfemia, quanto per l’ennesimo culo (sic!) femminile esibito (e che ne sdoganerà altri che, successivamente, pubblicizzeranno di tutto, dallo slip all’aperitivo).
Dalla sala successiva è il ritratto con valenze sociologiche e antropologiche a prendere il sopravvento. Toscani – come Sebastian Rich, altro fotografo che seguiamo da anni – sapeva cogliere l’attimo in cui uno sguardo, un’espressione, un abito o una cicatrice, un’ombra un tatuaggio o una posa, raccontano un universo personalissimo eppure condiviso perché siamo tutti parte della medesima umanità.
La voce di Oliviero Toscani fa da sottofondo all’esposizione sia al pianterreno sia al primo piano, mentre spiega il legame tra se stesso e il proprio soggetto: tolto il diaframma tecnico, l’unico ‘trucco’ è lasciar fluire lo scambio tra chi guarda e chi è guardato. “E noi chi siamo?”, si domanda il visitatore/spettatore. Per un attimo, siamo la macchina fotografica nelle mani di Toscani che capta e accoglie quello sguardo – il quale, a sua volta, asconde e apre a un universo personale: di dolore, infantile, pensoso, di sfida e, forse, perfino di paura.
In una sala a latere un video con un’intervista a Toscani che ripercorre la sua carriera e alcuni scatti di anni in cui incontrarsi era una questione ‘situazionista’ – priva di sovrastrutture. Ed è per questo che Toscani riuscì, fin dagli anni 70, a essere tra i primi a trasformare la moda in modus vivendi. Il video, molto preciso, ricco di spunti e interessante, ripercorre tutti i momenti salienti di una carriera durata mezzo secolo.
Proseguendo nella mostra notiamo che, curiosamente, accanto al costume, alle decorazioni del volto e dei capelli, alla bandana o alle collane di perline o di metallo tradizionali, che appartengono a un gruppo culturale e che definiscono l’individuo attraverso l’appartenenza a una comunità; compaiono gli oggetti con il quale il nostro Occidente va alla ricerca di una propria identità non più collettiva bensì specifica, a volte semplicemente alla moda (come una montatura di occhiali) e altre espressione di un modo di essere individuale (un piercing, un tatuaggio, l’uso di brillantini, un trucco anticonvenzionale, una cresta, una vistosa tinta di capelli o un cappello decisamente anacronistico). Siamo sempre alla ricerca di un io che non riesce più a diventare noi.
Forse solo in queste sale, tra questi scatti, si possono vedere quasi spalla a spalla l’uomo con la kefiah e il ragazzo con la kippah: eppure non apparteniamo tutti alla medesima umanità?
La mostra continua:
Fondazione Palazzo Blu
Lungarno Gambacorti, 9 – Pisa
fino a domenica 29 giugno 2025
orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 10.00 alle 19.00; sabato, la domenica e festivi, dalle ore 10.00 alle 20.00
Razza Umana
mostra organizzata da Fondazione Palazzo Blu
in collaborazione con Oliviero Toscani Studio
con il sostegno della Fondazione Pisa
venerdì, 2 maggio 2025
In copertina: La locandina della mostra (particolare per ragioni di layout)