
…e finirete per scottarvi!
di Luciano Uggè
Domenica 8 giugno dalle ore 7.00 alle 23.00, e lunedì 9 giugno dalle ore 7.00 alle 15.00, si terranno le votazioni per cinque referendum che dovrebbero far scendere in piazza milioni di lavoratori e lavoratrici e, al contrario, stanno passando letteralmente sotto silenzio.
Sarà l’ignavia tipica di questa generazione, ormai avvezza a farsi sfruttare credendo di essere classe intellettuale quando è sottoproletariato culturale; saranno gli anni di lockdown che hanno chiuso letteralmente i cervelli in casa; sarà che il qualunquismo è diventato più cool della partecipazione (quella che cantava Gaber e con la quale vi lasceremo), ma questi sì sono cinque pietre che potrebbero abbattere almeno in parte le politiche capitaliste e predatorie degli ultimi vent’anni e che sono state abbandonate nelle mani di qualche sparuto ex compagno o rappresentante sindacale in fabbrica. La cosiddetta società civile come la politica da salotto del Transatlantico latita, balbetta o invita a una giornata fuori porta.
E allora eccoci qui noi, a rompervi le uova nel paniere (che avevate già preparato per la gita domenicale) e a ricordarvi che se non andate nemmeno a votare per questi referendum, non potrete lamentarvi poi quando vi lasceranno a casa con un bel servito o, cadendo da un ponteggio, sarete semplicemente cosparsi con le solite lacrime di coccodrillo (giornalistiche e sindacali).
I quesiti del referendum
Il primo quesito vi chiede se siete d’accordo con l’Abrogazione del contratto di lavoro a tutele crescenti. In pratica si vuole abolire l’odioso e anticostituzionale (perché discrimina di fatto i lavoratori in Serie A e B), Jobs Act. Attualmente un’azienda può illegittimamente licenziare – anche nel caso abbia oltre 15 dipendenti – ‘compensando’ il lavoratore soltanto con un indennizzo economico e senza più essere obbligata a reintegrarlo. Ovviamente con la vittoria dei sì avremmo un ritorno alle vecchie regole, con maggiore tutela per i lavoratori e minore discrezionalità per le aziende di licenziare sindacalisti e lavoratori non supinamente flessibili.
Il secondo quesito riguarda le tutele per i lavoratori e le lavoratrici delle imprese con meno di 16 dipendenti, in pratica quelli che da sempre (o quasi) possono essere licenziati anche senza giusta causa o giustificato motivo e compensati solo con un indennizzo economico corrispondente, al massimo, a 6 mensilità. Con il sì al quesito si cancella tale limite e, in caso di licenziamento illegittimo, sarà il giudice a determinare il valore dell’indennizzo. Ora, visto che il lavoro in Italia dovrebbe essere un diritto sancito dall’articolo 1, la speranza è che almeno la magistratura a quel punto si faccia carico di far pesare al datore di lavoro una decisione socialmente e costituzionalmente inaccettabile.
Il terzo quesito riguarda i contratti a termine e le cause fasulle (quelle reali sono, come sempre, dare al datore di lavoro più potere coercitivo e di sfruttamento) che giustificano attualmente l’instaurazione di un rapporto a tempo determinato. In questo momento, infatti, non vi è alcuna limitazione all’impiego di contratti a termine fino a 12 mesi – mentre ve ne sono per il rinnovo fino a 24 mesi. Se prevarrà il sì, si limiterà la piaga endemica del precariato rendendo obbligatorio indicare specifiche causali – quali, ad esempio, il lavoro stagionale o la sostituzione per maternità – anche per i contratti fino a 12 mesi.
Il quarto quesito è più complesso, soprattutto se si evita di spiegarlo in parole povere. Riguarda, infatti, l’esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. In pratica, se vince il sì, tutti saranno responsabili quando un operaio o uno studente/lavoratore, uno stagista o un muratore muoiono o si feriscono in un cantiere, un’officina, sui binari della ferrovia, in uno stabilimento o su un palcoscenico.
L’ultimo quesito riguarda il diritto di cittadinanza italiana, dimezzando da 10 a 5 anni il tempo della residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di cittadinanza nel nostro Paese. Una semplice presa di coscienza che le società stanno diventando sempre più multietniche e accoglienza significa imposizione di doveri ma anche concessione di diritti.
Ma voi andrete al mare, vero? Perché la partecipazione non è più sinonimo di libertà.
venerdì, 30 maggio 2025
In copertina: Immagine di Richard Duijnstee da Pixabay (particolare per ragioni di layout)