
Un’esperienza che è sempre una prova
di Simona Maria Frigerio
Lessi il libro di Milan Kundera oltre vent’anni fa: non ne ho ricordo, come acqua che passa sotto i ponti senza lasciare traccia. Ma quel titolo mi è rimasto in mente, ne ho assaporato il gusto, più e più volte, senza mai comprenderne a fondo gli ingredienti: forse perché noi occidentali non siamo abituati a quel gesto o a quella parola, a quel passo oltre la soglia dalla quale non si torna. Non è solamente l’incredulità verso la fine del nostro io pensante, razionale e onnipotente – non è solo il limite della morte.
Certo, a volte, vien da pensare che per chi crede in un dio possa essere più facile quel passaggio di testimone, soprattutto se capita in tarda età – quando il mondo non ci appartiene oltre e non riusciamo più a riconoscerlo, quando abbiamo il vuoto intorno a noi, palpabile, di tutti gli amici discioltisi come neve al sole, a cui siamo sopravvissuti nostro malgrado e in cui non possiamo più rifletterci. Per i credenti il passaggio dovrebbe essere più lieve, in quanto aspirano a un al di là che li eternizzi nella loro singolarità tutta umana e cerebrale. Illusione pia o egocentrica?
Ma gli addii, il valzer che ognuno di noi danza accomiatandosi, va oltre quello finale e ne sono disseminate le nostre vite, le nostre ore. Si dice addio a un Paese in cui si è vissuti e per il quale forse si è combattuta l’ultima vana battaglia civile; a una casa che abbiamo arredato per anni con cura, circondandola con un giardino segreto protetto da un’alta siepe, che ne ha precluso la vista agli estranei; a un’amica che è emigrata e sai che non tornerà e di esserti persa l’occasione di conoscerla meglio perché senti che quell’affinità è un dono raro; a un paesino sperduto su una costa ormai cementificata, nel quale hai trascorso pigre notti serene, camminando silenzioso su una spiaggia deserta, mentre i turisti cenano paciosi nei loro resort di lusso e tu ti prendi il lusso di riappropriarti di uno spazio che, di giorno, è intasato come una cloaca di lettini, ombrelloni e grassi flaccidi e vecchi nordeuropei in vena di tintarella come fossero i padroni del mondo, e saturo di gas di scarico e del rumore che rimbomba di sottofondo tra moto d’acqua e kitesurf – che minacciano di caderti in testa a ogni passo.
Abbiamo danzato a lungo il Siam e io. Per oltre due lustri ci siamo inchinati prima di stringerci in un abbraccio affettuoso e impersonale, lieve e intimo come il tocco di una massaggiatrice thailandese.
L’ultimo valzer coi coralli di Kradan, salvatisi dalla distruzione grazie al Parco marino; con quelli imbiancati dal sole in un’insenatura vicino a Mae Haad prima che le colate di cemento li seppellissero; con quelli appesi come collanine alle palme di una spiaggia larga quanto un francobollo nascosta oltre le colline di Tao e che, oggi, ospita un desalinatore al posto di conchiglie e tridacne maxime fossilizzate. E ancora vorrei abbracciare e tenermi stretta quell’ultima palma sradicata da un catarpillar come un ulivo palestinese dai coloni israeliani, per far posto all’ennesimo resort o condominio di lusso; e quella circondata da catenine di noci di cocco date alle fiamme per affumicarne la corteccia e scorticarla viva, a strati, come una strega; e quella che si è vista circondare le radici con pneumatici bruciati, soffocata dalla diossina come me, che la osservavo dal balcone con gli occhi che lacrimavano per il fumo – o forse perché capivo che la bellezza è troppo fragile per essere regalata a noi esseri umani.



Il valzer come incontro
Ma il valzer è anche un incontro con un altro essere umano che, per qualche istante, condivide con te la pista della vita. È quell’anziana insegnante thai di inglese che ci teneva a discorrere con noi perché, ormai in pensione, non si esercitava più con nessuno; e la giovane cuoca col suo chiosco a Phangan, che proveniva da un paesino sperduto dell’entroterra al confine con la Cambogia e, ogni sera, ci proponeva i suoi esperimenti: per un mese intero abbiamo volteggiato tra torte di banana e cioccolato e saccottini di mango e papaya finché, andandocene, ci ha regalato un libriccino di carta riciclata che ancora conservo, pensando che è raro trovare chi si congedi con tanta grazia; e la vecchia nella catapecchia di eternit, che ha tentato mille lavoretti per mettere insieme un pasto, dal cucinare improbabili zuppe per i tassisti al vendere banane, scopini o ventagli di paglia intrecciata, col marito che – nelle nottate afose – dormiva su due sedie piazzate accanto al marciapiede, e che per anni ci ha visti passare ma solo l’ultima sera ci ha concesso un cenno col capo e regalato un sorriso; e il ragazzo dei pancake che è invecchiato prepando al volo leccornie alla banana o alla nutella per i turisti che uscivano dal 7 Eleven e, dopo la Covid, era scomparso, per ricomparire nel 2024 invecchiato di vent’anni in pochi mesi ma con l’energia e la grinta di chi abbia sconfitto un cancro, teso come una corda di violino, con un sorriso da Joker stampato in pieno volto e, così come riapparso, scomparso forse per sempre; e infine quella famiglia di contadini, nelle campagne di Old Sukhothai – sperduto paesino con un sito archeologico tra i più belli al mondo – che, quando si incendia la canna da zucchero, si impregnano di un fumo grigio che satura l’aria, oscura il cielo e toglie il respiro per oltre un mese: quella famiglia ci invitò alla sua tavola per condividere il pasto frugale di rape rosse e bianche sradicate quella mattina nell’orto, che offrivano come un tesoro, più raro e prezioso di un tartufo.
Dico addio alla Thailandia forse come un’amante delusa, che si è vista tradita troppo spesso per crederci ancora; o come la fidanzatina di Peynet, la quale sa che nessuno la porterà mai all’altare perché un farang è, e tale rimane: sempre straniero, paria, meno che un estraneo – un bancomat a cui svendere bellezza in cambio di turismo da Cesenatico, senza rendersi conto che la bellezza non è rinnovabile come l’energia solare. La bellezza della natura si consuma e muore e, alla fine, resta solo il rimpianto – e nemmeno più una fotografia sbiadita, in tempi di usa e getta digitale.
Ma ogni valzer ha il suo tempo e, come scriveva Khalil Gibran: “La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia”.
Secondo racconto della raccolta Siam o mai più (tutti i diritti riservati)
Il primo, per chi se lo fosse perso:
venerdì, 30 maggio 2025
In copertina e nel pezzo: Foto della Redazione di InTheNet