
L’albergo come forma per riscoprire la figura del flâneur
di Simona Maria Frigerio
Pigramente lasciarsi cullare da orari imposti da un orologio di cui non vediamo le lancette, affidandoci all’asettico scorrere di un tempo che non ci appartiene perché è lo spazio stesso che ci circonda, anonimo nella sua ripetitività, a estraniarci da noi stessi.
Stanze da letto tutte uguali che si succedono una accanto all’altra, piano su piano, come in un alveare ben organizzato che sappiamo esistere al di là della nostra celletta, eppure non vediamo: nessuna possibilità di accesso all’intimità dell’altro da sé, che resta solo una remota possibilità. Ed è ancora meglio, quando quella stanza non reca alcun segno distintivo, alcun oggetto o poster o suppellettile o quadro che possa tentarti di sentirti a casa, di voler ricostruire una chiocciola intorno al tuo corpo viscidamente lumacoso, che sguiscia attraverso la vita, anzi le vite degli altri.
Gli altri, gli sconosciuti. Meglio se silenziose assenze/presenze che, come ombre, ci scivolano accanto, senza legami, fantasmatiche, che ci ignorano e ignoriamo, che non compartecipiamo nemmeno quando rientrano, per una frazione di secondo, nel nostro campo visivo. Sappiamo che non esisteranno oltre appena il nostro sguardo si appoggerà su un tetto di lamiera blu o un klong grigio, come le acque dell’Acheronte, e dall’odore altrettanto pungente. Il silenzio è il segreto: non rivolgere parola né rispondere a cenno o a sorriso perché altrimenti si crea un legame, invisibile, impalpabile, ma che stringe e costringe, mentre l’arte del flâneur risiede nel vagare, senza meta, senza futuro o passato, solo in un attimo presente di un eterno ritorno che abbiamo écrasé quando siamo scesi dal carro di Apollo e disgiunto la lancetta del tempo da un asettico spazio, che non ci partiene.
Vagare, vagolare in una luce soffusa, ma artificiale; respirare solo aria condizionata in un ambiente sigillato; lasciare impronte felpate su soffici moquette che attutiscono il menomo rumore; vedere il panorama di una metropoli estranea che scorre e vive trenta piani sotto di noi, e vibra di vita e attesa e del dolore del desiderio, assente nei nostri corpi assopiti nel languore del non esserci: perché esserci per forza? Perché imporre la nostra presenza, lottare per le nostre idee, credere in una fede o in una ideologia, sapendo che la nostra voce non sarà comunque udita da nessuno tranne che dalle nostre orecchie in questo mondo ormai sordo, o assordato da uno sviluppo privo di progresso o dalle magnifiche sorti e progressive?

La guerra è sempre un po’ oltre il nostro orizzonte: il nostro occhio non la vede mai realmente, sentendone la puzza di ferro e sudore, paura e sangue, che poi, a sua volta, stranamente odora pure quello di ferro, arruginito e sporco come una mestruazione andata a male. Il nostro occhio non distingue nemmeno più l’immagine del film creato su un set da quella ripresa sul palcoscenico della vita. E l’orecchio al trentesimo piano avverte appena il rimbombo di tuono, di cielo o carro armato. Distanti, nel nostro continente/giardino, in un universo plasmato al di sopra dei tetti del mondo, che lotta vanamente perché noi ci si trastulli in saloni e corridoi, divagando sul nulla, ascoltando solo noi stessi.
Terzo racconto della raccolta Siam o mai più (tutti i diritti riservati)
Per chi si fosse perso i primi due:
e
venerdì, 7 giugno 2025
In copertina e nel pezzo: Bangkok by night. Foto della Redazione di InTheNet (tutti i diritti riservati)