
Dille che è un gioco / Dille che è una cosa seria / Ma non spaventarla / Non dirle che la uccideranno
di Simona Maria Frigerio
Era il 2009, quando una tra le più grandi drammaturghe di lingua inglese del Novecento, Caryl Churchill, scrive Sette bambine ebree: 7 bambine, 7 scenari, 70 anni di conflitti. Dalla Shoah (ma prima ancora, forse, da quel Regno Unito che le ha dato i natali e che da Impero Coloniale aveva Mandato sulla terra di Palestina) fino all’Operazione Piombo Fuso (מבצע עופרת יצוקה, Mivtza Oferet Yetzukah) – una tra le tante immani carneficine commesse da Israele contro il popolo palestinese (popolo semita tanto e più degli ebrei, nati e cresciuti per secoli in Europa, 1).
Era il 2009, quando intervisto Vittorio Arrigoni sotto le bombe nella Striscia di Gaza (2) e, tra una domanda e l’altra, tra una risposta e l’altra, sento esplodere un mondo che stenta a nascere fin dal lontano 1948, dalla Nakba. Un mondo fatto di uomini, donne e bambini perseguitati, umiliati, arrestati arbitrariamente, picchiati, uccisi e costretti a vivere in un lager a cielo aperto – il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, è stato chiaro a proposito: “I civili si trovano in un circolo di morte senza fine, un luogo di sterminio”.
Ma come al solito il baco sta nella mela avvelenata, sta in quell’Onu che riconobbe per primo una divisione statuale su base etnico-religiosa perché gli Stati che vi sedevano alla guida dovevano ripulirsi la coscienza dall’orrore indicibile dell’Olocausto e, nel contempo, mantenere il loro potere geo-strategico in quell’area dell’Asia occidentale.
In questo momento storico in cui ancora una volta l’Occidente, vendendo armi a Israele, si lorda le mani del sangue di un nuovo genocidio, avere il coraggio di mettere in scena il testo di Caryl Churchill è impresa quasi titanica in un ambiente teatrale e intellettuale, come quello italiano, pavido, o addirittura schierato contro civili indifesi e che, di fronte a 50mila morti, non vuole ammettere che la ‘soluzione finale’, questa volta, è imposta al popolo palestinese.
Sono parole pesanti, queste, lo so – che spero cadano come macigni sulle vostre coscienze, quando andrete a dormire stasera e vi crederete innocenti. Nessuno lo è, nemmeno io, giornalista italiana che, come nel 2009, mi limitavo a intervistare Vittorio Arrigoni, oggi mi sembra di urlare a vuoto per orecchie sorde di fronte alla scomoda verità.
Fine del preambolo.
Abbiamo deciso di intervistare il regista che metterà in scena Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza, Andrea Adriatico
Lo spettacolo debutterà in un Festival che non ha paura di programmarlo: Kilowatt, diretto da Luca Ricci e Lucia Franchi. Con Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza il teatro italiano sembra finalmente confrontarsi con il genocidio che si sta perpetrando in Palestina. Ma Adriatico non teme attacchi personali?
Andrea Adriatico: «Il coraggio per affrontare questo spettacolo mi è venuto mettendo in scena Le amarezze di Koltès (3), che ho diretto l’anno scorso, prima del progetto su D’Annunzio, e a cui stavo lavorando quando è iniziato l’attacco alla Striscia di Gaza. In quello spettacolo gli attori dovevano recitare rinchiusi da una rete metallica che limitava il movimento dei corpi e, proprio quello che stavo costruendo sulla scena mi ha restituito la sensazione della tragedia di confinare un popolo, creando le condizioni per cui la mobilità è vietata. Israele è un Paese, anzi l’unico Paese al mondo che non ha confini definiti. L’impossibilità di ragionare sul confine genera questa inquietudine perenne perché uno Stato senza confini può essere tutto e nulla. Soprattutto per chi vive intorno a quello Stato. Io non sono antisemita. Non sono ebreo. Ma negli anni 90 mi dedicai a un progetto molto importante con Elie Wiesel, facendo recitare Eva Robin’s e creando un cortocircuito, sulla scena, molto interessante, e per me tale da portarmi a studiare l’ebraico e ad avvicinarmi alla cultura ebraica. Considero il rabbinismo, quindi la discussione costante, l’interpretazione costante dell’esistenza, come un elemento fondamentale della mia vita. Però ciò che sta succedendo a Gaza è intollerabile da ogni punto di vista. Non è più questione né di guardare al passato né di leggere questi avvenimenti da un punto di vista religioso. Qui ci troviamo di fronte a un uomo che sta aggredendo un intero popolo e lo sta aggredendo per altre ragioni. Basta fare un paragone. Pensiamo all’omicidio Moro: sicuramente un evento che è rimasto impresso nel ricordo della mia generazione. Io non sono un brigatista e non sono colpevole perché un gruppo di italiani lo fu e uccise Moro. Allo stesso modo, non è possibile identificare tutto il popolo palestinese con coloro che hanno commesso la strage del 7 ottobre 2023! I palestinesi non meritano l’estinzione più del popolo italiano per le stragi degli anni 70. C’è questo strano assioma: palestinesi=terroristi. Ma non regge. La storia che costruiamo oggi non può continuamente rifarsi al passato, o trovare giustificazioni nel passato. “La storia siamo noi”, canta De Gregori. Io, noi, dobbiamo agire nell’oggi».

Lei lavora su tematiche pregnanti ma partendo sempre da testi autorali. Chi le ha fatto conoscere Caryl Churchill e perché ha scelto proprio questo scritto per esprimere la sua urgenza umana e artistica?
A. A.: «Quando Stefano Casi me l’ha segnalato sono rimasto senza parole perché l’autrice compie un’operazione particolarissima: ricostruisce la storia del Novecento in maniera anche molto particolareggiata e, attraverso una serie di microscopici passaggi, riesce a far pendere la bilancia da un piatto all’altro. La scelta di metterla in scena, però, si è accompagnata a una serie di problemi anche a livello registico perché il testo pare si regga sulla forma monologante e io ho deciso di rifiutare il monologo. In secondo luogo, non va dimenticato che Chuchill è un’autrice britannica, ovvero è nata nel Paese che è responsabile del rientro massiccio degli ebrei in Palestina, dell’aliyah, e della creazione di uno Stato dai confini non ben definiti».
Nel testo di Churchill il focus è sull’infanzia ‘rubata’ dalla violenza. Lei, come regista, come è riuscito a tradurre questo tema?
A. A.: «Credo che quello che scrive l’Autrice nella Nota sia stato per me molto prezioso, in quanto non riferisce il suo testo a una precisa presenza infantile. Secondo me, quelle parole non sono da interpretarsi come moniti per bambini o adolescenti, ma sono altro – e spero che nello spettacolo si disvelerà un trucco che mi pare di avere percepito nella scrittura di Churchill e che vorrei trasmettere al pubblico attraverso un mio codice interpretativo. Ma non voglio anticiparlo. Però mi interessa aggiungere qualcosa su un film che mi ha ispirato, La strada dei Samouni, con la regia di Stefano Savona e la collaborazione di Simone Massi, il più importante animatore italiano – conosciuto anche a livello internazionale. Il film racconta lo sterminio dei membri di una comunità rurale, i Samouni (4), che risiedeva a Gaza, proprio nel 2009. Stefano, che conosco personalmente, aveva trascorso quasi due anni a Gaza ma non gli hanno permesso di usare le immagini di repertorio sulla strage. Lui, però, si era segnato tutto quanto era accaduto. Quindi, il film è composto da una parte narrativa con le immagini di questa famiglia di contadini che vive a Gaza e, dall’altro, l’assalto con i droni eccetera, che è stato ricostruito grazie alle illustrazioni di Massi. Vedendo il film mi sono accorto che Churchill narra, attraverso la sua scrittura, anche la medesima strage».
Ma adesso prendiamoci un attimo di pausa per riflettere. La seconda parte dell’intervista, che spazia anche su altri spettacoli di Andrea Adriatico, la potrete leggere su Persinsala:
https://teatro.persinsala.it/ritratti-dautore-intervista-ad-andrea-adriatico/69875
(1) Si veda, a proposito del termine semita e del suo significato linguistico e antropologico: https://www.eurasia-rivista.com/lequivoco-del-semitismo-e-dellantisemitismo/
(2) Il ricordo dell’intervista a Vittorio Arrigoni: https://www.inthenet.eu/2023/10/20/restiamo-umani/
(3) Le amarezze di Bernard-Marie Koltès: https://www.teatridivita.it/portfolio/le-amarezze-autunno-2024/
(4) Nel 2009, durante l’Operazione Piombo Fuso, una comunità di contadini, i Samouni, che vive da generazioni nella Striscia di Gaza, ha subito il massacro di ventinove componenti della comunità – tra uomini, donne e bambini – a opera di una unità d’élite dell’esercito di occupazione israeliano
Per chi volesse vedere La strada dei Samouni, il film è disponibile su RaiPlay:
https://www.raiplay.it/programmi/lastradadeisamouni
venerdì, 6 giugno 2025
In copertina: La Locandina dello spettacolo Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza