
Cosa ne avrebbe pensato Fichte?
di Francesca Camponero
L’Emilio di Jean-Jacques Rousseau si basa su un contrasto ben preciso, quello tra educazione del cittadino ed educazione della natura. Alla base del romanzo vi è la polemica contro i collegi e l’educazione aristocratica. Per Rousseau il ruolo dell’educatore sarebbe quello di ritardare l’apprendimento delle discipline per far vivere al fanciullo la propria infanzia felice. A questo punto l’esordio dell’Emilio può suonare come una sintesi perfetta del pensiero pasoliniano: “Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera nelle mani dell’uomo”. Sappiamo infatti come lo sviluppo, agli occhi di Pasolini, è “senza progresso” perché ci allontana dalla verità dell’Origine, costringendoci a perdere contatto con l’immediatezza naturale della vita e il suo fondamento sacro e mitologico. Nelle mani della ragione strumentale tutto non può che degenerare. L’Origine si sottrae all’alienazione della storia, sussiste in uno spazio incorrotto, sottratto al tempo. Pasolini ha questa visione, senza dubbio pessimistica, alle soglie del boom economico. Per Pasolini la società dei consumi non promuove un vero umanesimo integrale, né un vero progresso, ma è regressiva e disumanizzante.
Rousseau fa parte dell’illuminismo, tutta un’altra storia, ma pur facendone parte, vede anche lì il pericolo: il primato dell’intelletto su tutto ciò che concerne l’umano, lo sacrifica ad essere “pura ragione” e niente più, e questo per il filosofo francese non va bene. Era il momento in cui l’unica cosa che contava era la verità, indipendentemente dalle ripercussioni che essa comportava sullo stesso uomo. Per Rousseau la verità non è quella che dà coerenza al sistema, ma quella che fa sentire gli uomini felici. Ecco che il sentimento umano cessa di essere asservito alla ragione, diventando per primo giudice del valore della ragione. Rousseau ipotizza sia indispensabile ricostruire un concetto di cultura che dia sfogo alle genuine esigenze umane, e che non nasca dalle pervertite passioni di falsi rapporti sociali come quelli che caratterizzavano il suo tempo. Aveva intuito ben prima di Karl Marx che quella cultura non avrebbe mai modificato i rapporti sociali – sviluppo morale dell’uomo – ma serviva solo a stabilizzare l’assolutismo di Stato, con lo scopo di mantenere nella soggezione più totale i cittadini francesi in una condizione di schiavitù.
In questo senso non possiamo che trovare analogie col pensiero pasoliniano che, preservando il mito roussoiano della vita come assoluto Bene – dono della Natura – non può che restare diviso tra la trascendenza di un desiderio che lo sospinge incessantemente e disperatamente in avanti strappandolo dalla Cosa originaria, e il rimpianto struggente e melanconico nei confronti di questa perdita irreversibile dell’Origine.

Johann Fichte nella quinta lezione del suo La missione del dotto contesta quanto sostenuto nell’Emilio perché trova contraddittorio l’enunciato di Rousseau: come può un uomo di cultura come il filosofo francese negare il valore della cultura cercando un ritorno al regresso con il suo ritorno alla stato di natura? Per Fichte, infatti, la bassezza degli uomini di cultura (quando c’è) dipende dal sensualismo dominante. Certo Rousseau ‘vide’ come alcuni uomini di cultura erano ridotti a lacchè dei potenti e propensi solo ai guadagni, ‘vide’ che avevano perso ogni senso del giusto e dell’ingiusto, ma secondo Fichte lo stato di natura non è umano in quanto, assieme al vizio, sopprime anche la ragione e questo non va bene. Non siamo mica animali.
Chissà cosa avrebbe detto Fichte se fosse vissuto negli Sessanta del Novecento e avesse avuto a che fare con le idee pasoliniane e, soprattutto, il comportamento del poeta regista dominato, ahimè, dalla sensualità, componente significativa tanto nella sua vita quanto nelle sue opere?
Però, tutto si può dire di Pasolini, ma non che fosse pigro e inerte (per usare aggettivi adoperati da Fichte nell’ultimo capito del suo libro). Se Rousseau, sempre come afferma Fichte, ha avuto più energia nel patire che nell’agire, Pier Paolo Pasolini ha agito, e anche molto. Lo ha fatto come scrittore, regista, poeta, intellettuale, agendo in un tempo in cui ancora si poteva agire. Non si può negare che, sia pur in modo poco ortodosso, ha contribuito alla cultura italiana ponendo domande cruciali sulla società che, oggi più che mai, sono di un’attualità inquietante.
venerdì, 13 giugno 2025
In copertina: Particolare (per ragioni di layout) della copertina dell’edizione integrale in italiano di Emilio, di Jean-Jacques Rousseau; nel pezzo, Sulla missione del dotto, di Johann Fichte