
Prima tappa: raggiungere Malpensa
di Simona Maria Frigerio
Ti sembra lungo un viaggio che dalla solare camera a gas di Bangkok ti porta a Milano via Guangzhou, ossia dal Sud Est Asiatico ti costringe addirittura a perdere un’ora dalla parte sbagliata del fuso per poi rincorrere il pianeta, controcorrente, evitando Kyiv e risalendo a nord, oltre Mosca e fino in Bielorussia, per atterrare in una gelida, livida alba – che è da venire – a Malpensa?
Mai quanto percorrere i 250 km che separano l’aeroporto da casa tua: ti ci vorranno la pazienza di Giobbe, quattro regionali e tre cambi, oltre al 11 ore e mezza della tua vita (senza nemmeno il bonus fuso) per ammorbarti l’anima chiedendoti se davvero siamo il migliore dei mondi possibili.
All’alba che verrà, in una Malpensa in fibrillazione perché è arrivato un aereo (uno, sic!), riprendi confidenza col freddo (rimpiangendo le infradito striate di sporco, sudore e chilometri) e ti accorgi che, nel primo mondo, non sanno nemmeno cosa sia il tunnel. Così finisci stipato sul solito bus, che ti trasporta per 500 metri sballottandoti – insieme agli zaini e ad altri cento nelle tue stesse condizioni – come il batacchio di una campana stonata.
Dopo la fila agli ennesimi controlli, quando arriva finalmente la tua valigia, sul nastro trasportatore, tiri un sospiro di sollievo – soprattutto se all’andata te l’hanno letteralmente distrutta, ovvero ti hanno riconsegnato un trolley senza ruota – il che equivale a un cavallo zoppo. Ma il meglio è scoprire che, pur essendo italiana, tu – la tua lingua – non la capisci più: dove è finito il pullman per la Stazione Centrale che ti ha accompagnata all’andata? Cerchi a tutti i piani, le porte 5 e 6 sono chiuse o si aprono su lavori in corso, cartelli in stile presa per il culo ti dicono che stanno lavorando per rendere Malpensa ancora più bella. Ti guardi intorno: linoleum e luci artificiali. Una vago odore di cibo rancido e sudore altrettanto rancido ti circonda, emanato dai corpi e dall’ambiente. Ma alzi lo sguardo e la vedi, la bellezza. Con in mente ancora l’adesivo che hai trovato in bagno e che ti invita a chiamare il 1522 se stai subendo violenze – quasi fossi in uno di quei film, dove la rapita lascia messaggi nei cessi delle stazioni di servizio, che nessuno leggerà mai – eccoti la modella con le gambe aperte che ti mostra le mutande bianche su una depilazione totale. Qualcosa ti disgusta ma non sai a cosa attribuire quel leggero conato. Troppo oriente forse fa male o forse è stato il pollo al bambù, in aereo… Però fuggi. Fuggi accalappiando al volo un Malpensa shuttle che promette di essere un diretto: solo tre fermate. Peccato che, quando scendi al binario, dopo aver acquistato il biglietto, scopri che da Saronno a Milano lo shuttle fa tutte le fermate. Sono tre, in Milano – pari a quasi tutte le stazioni in città fatta eccezione per Rogoredo.
Va bene, ti dici. L’asettico hotel, dal quale guardavi il mondo dall’alto, come il marciapiede putrido, inondato di effluvi, sono ormai alle tue spalle. Sei ritornata in un Paese civile, ordinato, la capitale morale d’Italia – come chiamavano Milano… prima di scoprire Tangentopoli.
Finalmente sali sullo shuttle sgomitando e, d’un tratto, ti domandi dove mettere la valigia: è o non è il collegamento (in)diretto tra un aeroporto e una metropoli? Nessuno ha pensato a spazi per valigie e zaini? Ma non importa. Ti stringi, come una sardina, nella tua giacca a vento – anche per lo shock termico, chiedendoti come farà un migrante, dall’Africa, ad adattarsi a questo clima senza nemmeno una Colmar o una Moncler… – e speri solo di arrivare in Stazione Centrale il prima possibile per affondare i denti in una brioche alla nutella. E mentre gongoli mezzo addormentata al pensiero della nocciola che si fonde tra le tue labbra, una specie di bulldozer in minigonna e kajal – in stile Amy Winehouse fuori tempo massimo – inizia ad arringare le folle spiattellando cosa pensi lei della dieta che intende (chissà quando) iniziare e che no, non vuole andare da un dietologo, e nemmeno da un nutrizionista, perché quelli poi le toglierebbero alcuni alimenti e, al contrario, a lei basterebbe sostituire i carboidrati con le verdure, e però vuole mangiare un po’ di tutto, ma bene, e sarebbe ancora meglio se sostituisse la pasta col riso perché sazia di più… E bla bla bla. La guardi e ti chiedi se ci sia davvero qualcuno all’altro capo del telefono senza fili – e che sarebbe stato meglio che i cellulari non li avessero inventati se devono servire ad ammorbare il mondo con un esibizionismo tanto ridicolo quanto egocentrico. E pensi ai tuoi chilometri a piedi tutti i giorni per andare a prendere l’acqua potabile da bere e per cucinare e vedi il tuo riflesso nel finestrino e ti verrebbe voglia di dirle che gliela insegni tu una dieta efficacissima: basterebbe che riuscisse a sollevare il suo pachidermico culo (politically correct: elefantesco deretano) dal sedile e si mettesse a camminare – per quattro litri di acqua potabile al giorno.
Frastornata dal jetlag, immersa tra corpi rigorosamente fasciati di nero che frusciano e scivolano come carta velina stirata di fresco, mentre tu ti vorresti scavare una fossa per nasconderti dopo 30 ore di viaggio, arrivi al famoso bar e quando finalmente stai per addentare la sognata, agognata, concupita per notti e notti, brioche alla nutella, ecco che una matta si mette a urlare in mezzo al locale, sperticandosi a chiarire concetti fondamentali per andare d’accordo con lei in ufficio, mentre mulinella mani e braccia, saltellando dallo sgabello al tavolo, e tu pensi davvero di esserti addormentata a Bangkok… e risvegliata in manicomio.
(to be continued…)
Quarto racconto della raccolta Siam o mai più (tutti i diritti riservati)
Per chi si fosse perso i precedenti:
venerdì, 13 giugno 2025
In copertina: Bangkok tra smog, afa e un’edilizia feroce (foto della Redazione di InTheNet, tutti i diritti riservati)