
Ti addormenti a Bangkok e ti risvegli in manicomio. Ultima parte
di Simona Maria Frigerio
Sali e scendi scale con le valigie, corri tra coincidenze più adatte a un centometrista che a una persona di mezza età, mai che trovi un ascensore e se lo trovi non funziona, le scale mobili chissà perché vanno sempre al contrario della direzione che ti servirebbe, e se cerchi un bagno ti tocca pure sborsare un euro e venti centesimi – alla Stazione Centrale di Bologna – per ritrovarti in un cesso più sporco che sul molo di Haiphong, dove almeno c’era la bacinella con l’acqua e la usavano.
Dopo 10 ore di viaggio eccoti di fronte all’ennesima sosta imprevista. I treni, in Italia, hanno la capacità di rallentare e poi fermarsi in aperta campagna senza una ragione apparente. Sarà colpa del binario unico ancora presente su molte tratte toscane (e non solo)? Sarà colpa di una Freccia che, magari, ha la priorità su un Regionale? Sarà la coda con mamma anatra, e anatroccoli al seguito, che è saltata fuori da non si sa dove e ha deciso di farsi un giro sulle rotaie? Le spiegazioni, sempre più folli, ti turbinano in testa mentre guardi le lancette dell’orologio ticchettare avvertendoti che no, non arriverai in tempo per l’ultimo cambio, e ovviamente Trenitalia (sempre così puntuale) non potrà far partire le coincidenze con un ritardo di due minuti: siamo in Italia, mica in Giappone!
L’ultimo treno ti sfila sotto il naso mentre la rassegnazione – sentimento che ormai pervade la vita degli italiani a ogni passo – prende il sopravvento. Qualcuno chiama casa per avvertire che farà tardi per l’ennesima volta, qualcun altro ti informa che succede sempre così: un giorno sì e uno no, il regionale da Bologna è in ritardo e quello per Viareggio (ma anche quello per Firenze), partendo puntuali, lasciano a piedi decine di pendolari. Ma tutti tacciono, mesti, quasi senza la forza di reagire al sistema. Persino la battuta sui treni che, almeno, nel Ventennio arrivavano in orario è ormai fuori luogo – visto che i nipotini del Ventennio sono al potere e i treni continuano ad arrivare in ritardo…
La sala d’aspetto, al contrario, ha lo stesso odore del Ventennio. Sudicia e con le pareti impregnate di fumo, anche se ormai è vietato nei locali chiusi dal 2007. E se provi a rivolgerti a un bigliettaio per reclamare, ti rendi conto che la categoria sta scomparendo – sostituita da macchinette automatiche o dal tuo cellulare. E quell’unico esemplare rimasto si nega, non sa, ti invita a provare a fare un reclamo per via telematica. Perché non siamo più esseri umani: siamo i terminali di computer ai quali il potere ci collega per esprimere un parere, un dubbio, le nostre richieste, le lamentele, le proteste, la rabbia – che potrà anche montare, ma rimarrà lettera morta di fronte alla macchina (telematica, burocratica, politica).
La spoliazione del diritto di cittadinanza è questa: esserci trasformati passivamente, supinamente, impercettibilmente da esseri senzienti che discutevano, dialogavano, lottavano, in carne e ossa, in tweet che balbettano cinguettii su finti social – i quali, non a caso, mostrano una fallica X a metà strada tra il cerotto sulla bocca e il messaggio porno subliminale.
E quando infine risali per l’ultima volta la rampa della stazione per ritornare a casa e ti guardi intorno, ti chiedi dove sei. Non riconosci gli odori né il tepore del sole sulla pelle – un sole fioco, pallido, che illumina senza riscaldare. La gente alla fonte apre un rubinetto e l’acqua potabile sgorga come non vedevi da mesi: privilegio che in pochi, in Occidente, apprezzano. Ormai ti sei abituata alle bottiglie e ai bidoncini di plastica da caricare con l’acqua ionizzata o sottoposta a osmosi inversa per cucinare, lavarti i denti, bere. Ti sei abituata a fare chilometri, ogni giorno, per avere ciò che un italiano ottiene semplicemente aprendo un rubinetto a casa propria. Eppure quell’italiano si fa convincere a fare ‘plin plin’ rimpinzando il carrello di bottiglie di plastica che sfoggiano etichette, forme, marche e nomi che non modificano la sostanza: più o meno ricca di sali minerali, l’acqua è potabile o no? Bottiglie che poi finiscono sulle nostre spiagge, insieme a televisori, bambole, flaconi di detersivo, infradito, lattine e tutta la spazzatura che ormai crea isole da Bali alla Lecciona.
E tu entri in casa, una casa umida, che sa di chiuso, che non ha né il calore né il profumo della tua casa. Una casa estranea. Una casa che fatichi a sentire tua, a ricordare come tua. E ti accorgi di esserti persa. In qualche piega del tempo il tuo io si è impigliato in un mondo parallelo dal quale non riesci a tornare. Mai veramente.


Sesto racconto della raccolta Siam o mai più (tutti i diritti riservati)
Per chi si fosse perso i precedenti:
venerdì, 27 giugno 2025
In copertina e nel pezzo: Foto dei Simona M. Frigerio, tutti i diritti riservati