Un deposito museale vivente
di Simona Maria Frigerio
La visita al GAM va apprezzata come un viaggio tra ritmi di forme in equilibrio intimo con la nostra esperienza – umanissima – di ospiti di uno spazio/mondo che va rispettato nella sua interezza. Tutto ciò, ce lo ricorda immediatamente Paolo Icaro che ha voluto che tutte le sue opere fossero oscurate in segno di lutto per quanto sta accadendo a Gaza. Una azione che dimostra come l’arte possa essere politica – nel senso più alto di espressione di una polis – anche nel più semplice gesto, che è quello di negarsi, sottrarsi a sé e al visitatore.
Di fronte, Il movimento delle cose di Dadamaino sembra riverberare la medesima presenza/assenza, il medesimo soffio di vita che (in)spiriamo e (e)spiriamo.
Più oltre gli inconfondibili i giochi prospettici dei chiari-scuri di Moholy-Nagy come le tensioni materiche di Burri, di cui è esposto (Grande) Ferro M5 laddove la lamina brunita si plasma di leggerezza, sovrapponendosi in strati saldati con la feroce passione della carne, in dialogo serrato con La spirale di mezzanotte di Nanni Valentini – quando cielo e terra si toccano senza sfiorarsi, quando la forma e il rimando liminale (alla conchiglia e al mare) sembrano sconfessare il peso materico dell’opera.
Lo specchio come gabbia del nostro apparire, ovvero La gabbia dello specchio di Michelangelo Pistoletto – il quale rifiuta l’immagine lasciandoci solo una di quelle costri/uzioni che hanno contraddistinto un periodo del suo percorso creativo. E noi, privati dell’immagine voluttuaria e narcisistica nello specchio, non possiamo nemmeno più illuderci domandandoci se siamo noi quelli rinchiusi dietro le sbarre, o se è solo la nostra proiezione esteriore a essere ingabbiata dalla società.
Ma l’autentica sfida espositiva si apprezza al secondo piano del GAM. Dal secondo Novecento si torna indietro di un secolo e oltre: siamo traslati spazialmente e temporalmente in un deposito museale o in un sito archelogico tra busti e statue, dipinti e bronzi, ceramiche e marmi, mobili e suppellettili di design, appoggiati su scaffali in metallo, appesi come fossero nel salotto di casa, uno accanto all’altro, senza badare alla dimensione o già predisposti nelle casse (di grandi dimensioni), pronti per essere trasportati in esposizioni temporanee.
Grazie a un QR Code scopriamo gli autori più famosi del secondo Novecento – Capogrossi, Vedova, Burri, Fontana, Afro, Manzoni, Merz, Schifani e tanti altri – appesi l’uno accanto all’altro come se fossimo nel corridoio di un’abitazione privata, da cui si accede alla Sala del riposo con mobili di design degli anni tra i 30 e i 50 del Novecento – posizionati fra tele di Casorati e Morandi.
Da qui in avanti, il visitatore si tuffa nella favola o nella favola distopica con gli animali impagliati tra rifiuti industriali e chimici di Mark Dion, e il suo La Fontaine. Mentre, sul lato opposto, tra solchi di cemento (invece che di terra brulla) e i neon (di Pedro Cabrita Reis) si rispecchiano specularmente nelle fotografie in bianco e nero dei terreni arati di Mario Giacomelli. Altrettanto stranianti Gli occhi del cielo di Carol Rama, una mise en abîme che pare la trasposizione dell’occhio di Ra, il quale – da un cielo azzurro – (ci) osserva, dialogando con Ada di Felice Casorati che, pur essendo una sua tipica terracotta dei primi del Novecento, pare rappresentare il volto di un alieno. Realtà o suggestione? Siamo noi a creare l’immaginario collettivo o è quest’ultimo a plasmare il nostro sguardo? In fondo, non è la mente a vedere?
Simile a una cabane di Buren, ma con rimandi all’archeologia e alle rovine pompeiane, Casa di Nanni Valentini ci attende in un’ampia sala illuminata a giorno; mentre, poco oltre, Sister#1 – una terracotta policroma di Chiara Camoni – si presenta come un oggetto votivo che sarebbe potuta appartenere proprio a quell’epoca lontana, ma rimanda altrettanto efficacemente a culti sciamanici.
Tornando indietro nel tempo, fino all’Ottocento, ecco una sala dedicata all’azione tragica, che non è mai agita in scena, bensì raccontata e qui (non essendo a teatro) è trasfigurata nella risposta emotiva di chi vi assiste. Tutto è già avvenuto, al di qua della tela, e siamo noi i protagonisti: dal quadro ci osserva inorridita una donna in déshabillé o una suora in estasi che, forse, come Enrichetta Caracciolo sta tentando di abbandonare, con il velo, la clausura monacale (L’adultera di Francesco Mosso e La cella delle pazze di Giacomo Grosso).
Chiudiamo con Medardo Rosso e le sue sculture che fondono le emozioni in un mix tra improssionismo ed espressionismo ante-litteram.
La wunder kammer curata da Chiara Bertola e Fabio Cafagna con Stefano Arienti e il design dell’allestimento affidato a PAT convince e ci ha rammentato una mostra di qualche annofa, curata da Wes Anderson, a Fondazione Prada (1). Il consiglio è di scegliere la visita guidata quando non si abbiano strumenti sufficienti per apprezzare il percorso.
GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
via Magenta, 31 – Torino
orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle 18.00 (lunedì chiuso)
(1) https://artegrafica.persinsala.it/wes-anderson-e-juman-malouf-il-sarcofago-di-spitzmaus-e-altri-tesori/12108/
venerdì, 10 ottobre 2025
In copertina: Il Logo del GAM

