All’ombra della guerra e del genocidio palestinese
di Federico Giusti
Ci sono Paesi in Occidente che, di fronte al genocidio palestinese, hanno adottato politiche conseguenti rispetto allo Stato di Israele?
No, anche i Paesi più critici si sono limitati a qualche invettiva diplomatica ipotizzando il riconoscimento di un eventuale Stato palestinese la cui entità geografica è tanto confusa quanto irreale visto il dispiegamento militare israeliano e i progetti di occupazione e colonizzazione in atto.
In molti Paesi, poi, i tentativi di fermare la vendita di armi a Israele è stata letteralmente boicottata da lobby sioniste (chiamiamole con il loro nome) che, all’occorrenza, scatenano il senso di colpa verso l’eccidio del popolo ebraico da parte nazista.
In altre nazioni si afferma pubblicamente di avere interrotto qualsiasi rapporto commerciale e militare con Israele salvo poi scoprire ben altra realtà. E, ad esempio, una partita di armi può anche essere ceduta a un Paese per arrivare ad un altro che, a sua volta, fa recapitare lontano il rifornimento e, dopo innumerevoli giri, arriva alla vera destinazione.
Nelle università statunitensi e in Germania centinaia di attivisti propalestinesi sono stati arrestati e denunciati. Quanto accade in terra Trumpiana non è detto sia estraneo al clima culturale che esporteranno, in autunno, in Europa, a partire da scuole e atenei.
L’obiettivo della campagna filoisraeliana va ben oltre il sostegno al genocidio, mira a ridefinire assetti democratici nei Paesi occidentali, utilizza le accuse di antisemitismo per normalizzare l’insegnamento, per dare impulso alle tecnologie duali avvalendosi, magari, del sostegno di qualche esponente politico che da anni, ormai, a ogni domanda sul Medio Oriente, risponde con la litania sul 7 ottobre. Non occorrono grandi conoscenze della storia per capire che da decenni è in atto una feroce repressione del popolo palestinese e con gradualità siamo arrivati al genocidio.
Si confonde deliberatamente la critica politica, la lettura storica non in linea con la vulgata ufficiale con l’istigazione all’odio razziale. È quindi in atto, negli Us ma presto anche in Ue, la normalizzazione delle scuole e dell’università – forse in Italia siamo già avanti con la presenza di protocolli tra Ministero dell’Istruzione, Provveditorati e Forze Armate, e gli Atenei con le linee guida in materia di educazione civica o con gli stages scuola-lavoro nelle caserme. Ha ragione Clara Mattei (sul Fatto Quotidiano del 18 Agosto) che, riprendendo Gramsci, ricorda come l’università sia parte integrante dell’apparato del potere statale, essenziale nella costruzione del consenso per un ordine socio-economico fondamentalmente antidemocratico. Se un tempo la maschera era quella del pluralismo, oggi il volto è apertamente autoritario.
In questo clima avere conquistato – un sentito ringraziamento va a studenti e ricercatori e a quanti li hanno sostenuti – degli statuti con passaggi chiari contro la partecipazione delle università a progetti di guerra, potrebbe essere il canto del cigno di percorsi conflittuali ai quali seguiranno processi di normalizzazione e progetti neo-autoritari.
Nelle giornate estive, girando per festival – tra le poche iniziative pubbliche ancora in essere – abbiamo toccato con mano il disinteresse verso l’economia di guerra, l’inconsapevole sottovalutazione politicista di quanto la sopravvivenza del sistema capitalistico sia legata alle guerre in corso. Prova ne sia l’aumento esponenziale di alcuni titoli azionari in borsa. I governi nazionali stanno facendo di tutto e di più per favorire queste aziende: fautori del libero mercato intervengono, invece, con fare protezionistico per impedire a un’impresa concorrente di entrare nei mercati nazionali, si ergono a mediatori per rafforzare il capitalismo nazionale all’ombra della produzione di morte. E sarebbe utile, anzi indispensabile, provare a ricostruire quella fitta rete di interessi tra le aziende produttrici di armi, il sostegno accordato dalla classe politica dominante a determinate imprese e la politica estera intrapresa dai singoli Paesi.
L’accanimento contro Francesca Albanese nasce proprio dalla pubblicazione di una ricerca intitolata: Dall’economia dell’occupazione a quella del genocidio. Per questo non passa giorno in cui non venga descritta dai giornali del centro-destra, e non solo, come un’alleata di Hamas con una campagna di odio ben orchestrata ai piani alti dell’editoria e della politica nazionale
Chiudiamo con due ulteriori considerazioni: il Bilancio pluriennale europeo ci parla di investimenti duali e nelle infrastrutture. Nei singoli Paesi Ue vedremo tra qualche settimana quante spese sociali saranno cancellate: questione rilevante perché, quando mancano i soldi si vanno a prendere dove ci sono – ossia da sanità e pensioni, o dai finanziamenti previsti agli Enti locali. È poi importante ricordare che un aumento delle spese sociali rimetterebbe in funzione l’ascensore interclassista che, al contrario, sono in molti a voler tenere fermo. E se gli Us rappresentano ancora un parametro di confronto, anzi una sorta di anticipazione degli scenari prossimi del vecchio continente, l’aumento delle spese militari ha già sacrificato le risorse destinate a tre capitoli di spesa: la sanità, l’assistenza alimentare, i servizi educativi e i piani sociali destinati ai migranti. E in alternativa? Nuovi centri di detenzione, sorveglianza e tecnologia avanzata per controllare i confini con il Messico e le aree metropolitane facendo leva sulla percezione dell’insicurezza e dei ‘pericoli’.
Siamo davanti a una sorta di austerità che taglia i programmi sociali, acuisce il controllo e la repressione, restringe gli spazi di libertà e di democrazia, chiude la bocca alle voci dissenzienti e rafforza i dispositivi militari nel corpo sociale. Ecco spiegato, in termini semplici e un po’ affrettati, il rapporto tra politiche di austerità, sostegno alla guerra e repressione delle istanze democratiche.
venerdì, 17 ottobre 2025
In copertina: Foto di Suresh Babu Guddanti da Pixabay

