Egemonia multipolare o un altro mondo è ancora possibile?
di Simona Maria Frigerio
Riprendiamo la disamina del Piano Trump per la Palestina, iniziata la settimana scorsa, ovviamente sempre con un pizzico di sarcasmo (perché, altrimenti, citando un famoso film del compianto Massimo Troisi, “non ci resta che piangere”).
Il decimo punto assomiglia più a un discorso pubblicitario da imbonitore che a un Piano di Pace minimamente credibile: “Un Piano Trump per lo sviluppo economico al fine di ricostruire e ridare energia a Gaza sarà ideato, convocando un panel di esperti che hanno portato alla nascita di alcune delle città moderne più floride del Medio Oriente. Molte proposte ponderate di investimento ed eccitanti idee di sviluppo sono state concepite da gruppi internazionali benintenzionati, e saranno considerate per sintetizzare contesti di sicurezza e governabilità al fine di attrarre e facilitare gli investimenti che creeranno lavoro, opportunità, e speranza per il futuro di Gaza”.
Il punto undici precisa: “Una zona economica speciale sarà istituita con tariffe preferenziali e di accesso, negoziate con i Paesi che vi parteciperanno”. In pratica, si creerà una zona economica speciale sul modello della cinese Shenzhen degli anni 90 (vi ricordate il numero di lavoratori cinesi che si suicidarono nelle fabbriche-lager delle multinazionali straniere?).
Il punto dodici promette (o permette, per gentile concessione dei colonizzatori) che: “Nessuno sarà forzosamente costretto a lasciare Gaza, e coloro che vorranno farlo saranno liberi di andarsene e di tornare” (ne dubitiamo visto da quanti decenni attendono di rientrare in Palestina i profughi della Nakba). E ancora: “Incoraggeremo le persone a rimanere” (ossia, uno Stato straniero si arrogherà il diritto di invitare la popolazione locale a restare sulla propria terra, dopo aver cercato di scacciarla a suon di bombe e fame per due anni) “e offriremo loro l’opportunità di edificare una Gaza migliore” (dopo averla distrutta? E migliore rispetto a quali parametri: palestinesi o occidentali? Magari agli abitanti di Gaza, a parte essere circondati da Israele che non permetteva loro di muoversi liberamente, la vecchia Striscia andava bene…).
Il punto tredici prevede che “Hamas e le altre fazioni devono accettare di abdicare a qualsiasi ruolo nel Governo di Gaza, direttamente, indirettamente, o in qualsiasi forma. Tutte le infrastrutture militari, terroristiche e offensive, inclusi i tunnel e gli stabilimenti per la produzione delle armi saranno distrutti e non ricostruiti. Ci sarà un processo di demilitarizzazione di Gaza sotto la supervisione di osservatori indipendenti, il che includerà lo smantellamento degli armamenti attraverso un processo concordato, e supportato da un programma finanziato internazionalmente dal buy back, e di reinserimento – il tutto verificato da osservatori indipendenti. New Gaza sarà interamente votata alla costruzione di un’economia florida e alla pacifica coesistenza coi propri vicini”. Ecco il sogno della Riviera Trump che si materializza – con o senza l’apporto dei think tank della Fondazione Blair. Oppure ci troviamo di fronte a una distopica Las Vegas per annoiati turisti statunitensi in vena di hotel a cinque stelle in località esotiche, e aree bord de mer per le seconde case di sionisti israeliani (o stranieri). C’è anche un secondo punto che non comprendiamo: perché non si chiede ai colonizzatori sionisti di abbandonare le armi e abbattere mura di cinta e filo spinato, che circondano le loro roccaforti blindate e illegali, edificate nei Territori Occupati?
Il punto quattordici prevede che i partner regionali garantiscano “che Hamas, e le fazioni, rispettino gli obblighi e che New Gaza non sia più una minaccia per i suoi vicini e le loro popolazioni”. Qui verrebbe da chiedersi chi minaccino i palestinesi, a parte i colonizzatori sionisti israeliani. E soprattutto chi abbia deciso di cambiare il nome a Gaza (sic!).
Il punto quindici afferma che gli “Stati Uniti collaboreranno con i partner arabi e internazionali per creare una Forza di Stabilizzazione Internazionale temporanea (ISF) da dispiegare immediatamente a Gaza. L’ISF addestrerà e supporterà le forze di polizia palestinesi verificate, a Gaza, e si consulterà con la Giordania e l’Egitto, che hanno una vasta esperienza sul campo. Questa forza diventerà la soluzione a lungo termine per la sicurezza interna. L’ISF collaborerà con Israele ed Egitto per rendere sicuri i confini, insieme alle forze di polizia palestinesi appena addestrate. È importante prevenire che rifornimenti di munizioni entrino a Gaza e facilitare il flusso rapido e sicuro di beni per la ricostruzione e la rinascita di Gaza. Un meccanismo per la risoluzione dei conflitti sarà concordato tra le parti”. In pratica, Gaza passerà dall’essere pattugliata ‘solo’ dall’esterno, a essere trasformata in un autentico lager con le guardie all’interno, presenti sul proprio territorio, dove i palestinesi saranno i paria (camerieri, personale delle pulizie, giardinieri e manovali) di una Las Vegas mediorientale di lusso, che si godranno gli ospiti – mentre a loro, se andrà bene, resteranno quartieri periferici in stile bantustan.

Il punto sedici stabilisce (bontà loro) che “Israele non occuperà o annetterà Gaza. Appena l’ISF assicurerà controllo e stabilità, l’IDF si ritirerà con standard, punti preordinati e tempistiche connessi con la demilitarizzazione, concordemente a quanto deciso tra IDF, ISF, i garanti, e gli Stati Uniti, con l’obiettivo che Gaza sia sicura e non sia più una minaccia per Israele, l’Egitto, o i suoi cittadini. Praticamente, l’IDF abbandonerà progressivamente il territorio di Gaza che occupa, lasciandolo all’ISF secondo un accordo con l’autorità del periodo di transizione fino al completo ritiro, fatta salva la presenza perimetrale di sicurezza che resterà finché Gaza non sarà davvero al sicuro da qualsiasi minaccia di rinascita terroristica”. Analizziamo questo campionario di retorica. In primis, la vittima (Gaza) si trasforma in carnefice: un carnefice talmente temibile da aver minacciato, oltre che Israele, anche l’Egitto (non ne avevamo conntezza). Israele, ovviamente, si è solo difeso e continuerà a controllare il perimetro di Gaza, in pratica a impedire che i reclusi escano dal lager a meno che ciò non serva ai fini economici di Israele (ad, esempio, usandone la manovalanza a basso costo). In terzo luogo, ancora una volta la Resistenza del popolo palestinese è giudicata bieco terrorismo, mentre la ferocia dei colonizzatori sionisti o dell’IDF ne escono candide come i denti che Salomone avrebbe paragonato a “un branco di pecore tosate che tornano dal lavatoio” – ognuno ha le metafore e i poeti che si merita (sic!).
Il punto diciassette è una minaccia precisa e prevede che “Nel caso Hamas ritardi ad accettare o rifiuti questa proposta, tutto quanto scritto, incluse le operazioni di aiuto, procederanno nelle aree liberate dai terroristi a opera dell’IDF e dell’ISF”. Crediamo sia sotto gli occhi di tutti come l’esercito israeliano abbia finora fornito aiuti umanitari agli abitanti di Gaza.
Il punto diciotto afferma: “Un processo di dialogo interreligioso sarà messo in atto in base a valori e principi di tolleranza e una pacifica coesistenza per tentare di cambiare la mentalità e la narrazione di palestinesi e israeliani, puntando sui benefici che possono derivare dalla pace”. E qui sorgono due dubbi. Il primo è che Israele si è trasformato da Stato laico a nazione su base etnico-religiosa e, quindi, tale dialogo lo ha già messo da parte anni fa. Il secondo è che i ministri dell’attuale Governo israeliano si esprimono pubblicamente in questi termini: «I palestinesi meritano solo una pallottola in testa» (Ben-Gvir); mentre lo scorso maggio, durante la cosiddetta Marcia del Giorno della Bandiera, che celebra l’annessione (illegale) di Gerusalemme Est del 1967, i manifestanti sionisti – proprio alla Porta di Damasco, che è parte integrante della Moschea di Al-Aqsa – davano sfogo al loro odio contro i palestinesi con slogan del tipo: «Gaza è nostra», «Morte agli arabi», «Che i loro villaggi brucino». Tutte chiare dimostrazioni della volontà sionista di venire a patti con chi non appartiene alla ‘razza eletta’.
Il punto diciannove è espressione, ancora una volta, dei sogni lisergici (perché non altrimenti si possono definire) di Trump e Blair: “Mentre procederà la riqualificazione” (notate il termine: non ricostruzione, non riedificazione dopo la barbarie dei bombardamenti) “di Gaza e il programma di riforme della PA sarà stato fedelmente portato a termine, ci saranno finalmente le condizioni per un processo credibile per l’autodeterminazione dei palestinesi e la costituzione di un loro Stato, che riconosciamo essere l’aspirazione del popolo palestinese”. O, come afferma Ilan Pappé, il pio desiderio delle élite mondiali troppo pigre per impegnarsi seriamente per una soluzione della tragedia palestinese – che si protrae dal 1947/1948. Ma chi dovrebbe giudicare, dall’alto di principi morali superiori – dopo quasi ottant’anni di soprusi, vessazioni, arresti arbitrari, esodi forzati, distruzioni di villaggi e uliveti, omicidi più o meno mirati, attacchi militari e punizioni collettive, due anni di assedio, fame, pulizia etnica, bombardamenti indiscriminati, distruzione delle infrastrutture civili, uccisione inumana di decine di migliaia di civili tra i quali oltre 20mila bambini – che questo popolo, il popolo palestinese, è finalmente ‘maturo’ per autodeterminarsi?
Il punto venti è l’apoteosi dell’ipocrosia. Dopo aver finanziato e armato una delle due parti in causa, protetto un genocidio e la pulizia etnica operata per decenni, essersi opposto a qualsiasi Risoluzione dell’Onu di condanna ed essersi sporcato le mani del sangue di oltre 20mila bambini proprio lo zio Sam “stabilirà un dialogo tra Israele e i Palestinesi per concordare un orizzonte politico pacifico e una coesistenza prospera”.
Questi sono i Piani non di Trump ma dell’Occidente neo-colonialista, anti-arabo e islamofobico. Vedremo come risponderanno i palestinesi e il mondo arabo e islamico (da sempre diviso e, a livello di élite, più interessato a fare affari con Washington che ai diritti del popolo palestinese).
Vedremo anche se il cosiddetto multi-polarismo proporrà di meglio oppure se è anch’esso solo una tigre di carta (Mao docet), che mira a salvaguardare i propri interessi e ad allargare il novero dei Paesi egemoni, ma è autoreferenziale quanto la plutocrazia di Bruxelles o il Deep State di Washington. Putin e Xi Jinping mirano, rispettivamente, all’autodeterminazione del Donbass e alla subordinazione formale di Taiwan solo per fini interni o vi sono valori che sottendono tali scelte? Ovvero, le libertà civili, politiche, religiose e culturali non più garantite ai russofoni in Ucraina ma garantite ai cinesi di Taiwan sono l’ago della bilancia? Se questo è un valore fondante per i Brics, allora dimostreranno di non essere semplicemente l’ennesimo Cartello di potere economico, ma per farlo dovranno garantire il medesimo principio per la Palestina – opponendosi all’Occidente collettivo non solamente per scopi commerciali o per salvaguardare la propria area di influenza geo-strategica. Altrimenti, il multi-polarismo sarà solo un’egemonia compradora allargata a nuovi soggetti.
La prima parte su
venerdì, 24 ottobre 2025
In copertina: Gaza, foto di Hosny Salah; nel pezzo: foto di Yousef Masoud (entrambe da Pixabay)

