Tra Mes ed Eurobond meglio la FTT
di Simona Maria Frigerio
Come raccontava con arguta ironia Ascanio Celestini in una delle sue parabole video, che ha fatto il giro dei social pochi giorni fa, il coronavirus ha viaggiato in business class. E allora perché a fare le spese e a rilanciare le economie reali di questo mondo ormai globalizzato non dovrebbe essere l’untore metaforico dell’epidemia, ossia quel manager che, da decenni, specula in Borsa?
Se Mes ed Eurobond ormai dovrebbero essere termini che maneggiate bene, cari lettori, la Tassa sulle Transazioni Finanziarie (ossia, la Financial Transaction Tax) potrebbe esservi meno nota anche perché sono decenni che se ne parla, ma né Europa né Stati Uniti sono mai arrivati a tirare le somme di un’operazione che ridarebbe fiato all’economia reale, colpendo per una volta la finanza speculativa internazionale.
Come funzionerebbe la FTT?
Senza dilungarci su James Tobin, Premio Nobel per l’Economia nel 1981, che formulò una tra le prime teorizzazioni in materia, che prevedeva una trattenuta minima sulle transazioni valutarie (preceduto però da altri provvedimenti, come quelli adottati durante la Grande Depressione statunitense), ciò di cui si è ricominciato a discutere sulla scia della crisi dei subprime(∗), sarebbe un’imposta tra lo 0,01 e lo 0,1% su ogni transazione finanziaria.
Ovviamente chi opera sul lungo termine – come il comune risparmiatore – in caso di una tassazione allo 0,05% su un BTP da 10.000 Euro con scadenza ventennale, si vedrebbe applicare – una sola volta e al termine di ben quattro lustri – una tassa di Euro 5. Al contrario di chi specula in Borsa, comperando e vendendo titoli grazie a potenti computer che gestiscono numeri elevatissimi di transazioni pressoché a ciclo continuo.
Sebbene secondo i suoi detrattori questa tassa sarebbe di difficile gestione, proprio il fatto che l’high-frequency trading è gestito e registrato su piattaforme elettroniche interconnesse permetterebbe di implementare un software che prelevi e versi automaticamente l’imposta all’Ente preposto alla raccolta del gettito.
Il principio di base sarebbe, quindi, esattamente il contrario di quello voluto dal Governo Monti che, nel 2013, ha introdotto una tassa sulle transazioni che “non si applica alle operazioni di acquisto e successiva vendita di strumenti finanziari concluse in una medesima giornata”. Una tassa, quindi, che colpisce il risparmiatore, il cosiddetto “buon padre di famiglia”, e premia lo speculatore. Del resto il Governo Monti è anche quello che ci ha regalato un taglio di 25 miliardi, in tre anni, sulla spesa sanitaria (dati Fondazione Gimbe).
Quali vantaggi porterebbe e quali le previsioni di gettito?
Già prima della crisi dei subprime nel lontano 2007, si calcolava che il volume delle transazioni valutarie fosse circa 70 volte superiore a quello dell’economia reale (costituita dalla produzione e dal commercio di beni e servizi). A riprova che non si impara da propri errori, e occorre cambiare politica, il 6 dicembre 2018, Il Sole 24 Ore lanciava l’allarme: “Il valore nozionale dei derivati in circolazione a livello mondiale potrebbe sfiorare la strabiliante cifra di 2,2 milioni di miliardi di euro, vale a dire 33 volte il PIL mondiale”. Il che, in parole povere, significa che sono oggetto di compravendita, titoli talmente gonfiati da poter considerare gran parte del mercato azionario carta straccia.
Per invertire la tendenza e riportare i listini in rapporto con l’economia reale, la FTT potrebbe essere un buon sistema. Disincentivando la speculazione e attingendo gettito da chi, in questi anni, è stato anche causa di gravissime crisi economiche, sociali e umane.
Ma non solo. Secondo The benefits of a Financial Transaction Tax (Dean Baker, Dicembre 2008, disponibile su www.cepr.net), una tassazione dello 0,1% a livello globale consentirebbe di riscuotere oltre 700 miliardi di dollari l’anno, anche “considerando la diminuzione delle transazioni che farebbe seguito all’introduzione della stessa FTT”. La metà di detto gettito andrebbe nelle casse europee e l’altra metà del Nord America e delle economie asiatiche.
Vi sembra poco? Secondo la Banca Asiatica di Sviluppo (ADB), le ricadute economiche del coronavirus, a livello globale, incideranno tra lo 0,1 e lo 0,4% del PIL a livello mondiale, ossia tra i 77 e i 347 miliardi di dollari. Standard&Poor’s ha tagliato le previsioni sul PIL globale 2020 dello 0,5%, concordando di fatto con le stime peggiori dell’ADB. E nonostante Standard&Poor’s sia la medesima agenzia di rating accusata da Obama di avere, al contrario, volutamente sopravvalutato alcuni titoli immobiliari prima della crisi del 2007 – il che ha portato l’allora Presidente a chiedere alla stessa un risarcimento di 5 miliardi di dollari – le percentuali sono prossime.
Che abbia ragione ADB o Standard&Poor’s, cifre alla mano la FTT potrebbe coprire senza problemi il fabbisogno. E lo farebbe senza intaccare il valore dei Titoli di Stato in mano ai risparmiatori, senza costringerci a svendere il nostro Paese, senza colpire la Sanità (già abbastanza provata), la scuola e i servizi pubblici, o tagliare uno tra i pochi ammortizzatori sociali che operano effettivamente in Italia, ossia il sistema pensionistico.
Il caso statunitense spiega chi paga e chi guadagna
Nel 2007 fu l’avidità del sistema finanziario a portare sull’orlo della bancarotta un intero Paese con conseguenze nefaste anche in Europa. Ma forse non tutti sanno quanto costò ai contribuenti statunitensi il salvataggio delle banche, dopo l’affaire subprime.
Secondo un’interessante ricerca pubblicata dall’agenzia di stampa americana Bloomberg, la Federal Reserve, ossia la Banca Centrale statunitense, avrebbe immesso 7.700 miliardi di dollari di liquidità con tassi vicini allo zero nel sistema finanziario americano durante la crisi del 2007/2009. Una cifra pari alla metà del PIL statale. Tutto per salvare Wall Street, e superando di ben dieci volte il valore del TARP (il Troubled Asset Relief Program), ossia il fondo di salvataggio delle banche voluto dall’amministrazione Bush e varato nel 2008.
E fu così che, mentre Obama firmava il “misero” American Recovery and Reinvestment. Un piano di interventi per 787 miliardi di dollari suddiviso in investimenti in infrastrutture, educazione, sanità ed energie rinnovabili, e in un aiuto alle famiglie e alle piccole aziende – grazie a sgravi fiscali e a sussidi di disoccupazione – gli ignari contribuenti, nei marosi della recessione, tra sfratti e perdita del lavoro, procuravano ai loro istituti di credito plusvalenze extra per circa 13 miliardi di dollari.
A chi faremo pagare le conseguenze economiche delle misure di contenimento del coronavirus?
4 aprile 2020
In copertina: Foto di Frantisek Krejci da Pixabay.