
Essere un tecnico teatrale ai tempi del Covid-19
di Simona Maria Frigerio
In questi giorni, l’Agis ha comunicato: “Su 347.262 spettatori in 2.782 spettacolimonitorati tra lirica, prosa, danza e concerti, con una media di 130 presenze per ciascun evento, nel periodo che va dal 15 giugno (giorno della riapertura dopo il lockdown) a inizio ottobre, si registra un solo caso di contagio da Covid-19 sulla base delle segnalazioni pervenute dalle Asl territoriali. Una percentuale, questa, pari allo zero e assolutamente irrilevante, che testimonia quanto i luoghi che continuano a ospitare Io spettacolo siano assolutamente sicuri”.
Tenendo conto che molti teatri, grazie alle riparametrazioni in base alla capienza, hanno ospitato anche numeri superiori – come, ad esempio, la Scala di Milano che arrivava quasi a 700 posti e che, dopo il penultimo Dpcm di ottobre (visto che il Governo Conte ne firma uno ogni tre giorni), ha dovuto annullare la campagna abbonamenti, per la prima volta dal 1946 – e che, da seduti, gli spettatori potevano togliersi la mascherina, ci rendiamo perfettamente conto di come, dati alla mano, il teatro, come il cinema e la scuola, non sono luoghi dove avviene il contagio. Nonostante ciò, la politica romana sembra sempre accanirsi contro la cultura, ritenendo di poter scegliere quali siano le attività essenziali e quali no (tra le prime, la produzione della bottiglia di plastica, tra le seconde la produzione di beni immateriali o lo sport). Perché?
Non ci si rende conto che 8 milioni e 700 mila persone in Europa lavorano nel settore cultura? E che solo in Italia, nel 2018, i lavoratori Inps/ex-Enpals censiti (ossia con una giornata in chiaro come lavoratori dello spettacolo) erano 324.614? Mentre, secondo Fondazione Symbola, nel 2109, i lavoratori dell’event industry erano addirittura 416.080. Settore che, sempre secondo detta Fondazione, incide per il 6,8% sulle attività economiche del nostro Paese, ossia con ben 96 miliardi di Euro (nel 2019) e che, in un solo mese di lockdown, ha perso circa 8 miliardi. Giusto per ribadire che è un settore economico (ossia che produce reddito e PIL) a tutti gli effetti.
Teniamo altresì conto che il lavoro a tempo indeterminato è l’eccezione: il 3,5% nel 2017, secondo Ateatro – e, quindi, le coperture in caso di disoccupazione sono praticamente inesistenti. Non a caso, lo scorso 10 ottobre sono scese in piazza Duomo alcune centinaia di lavoratori per una rivendicazione di categoria (quella dei 500 bauli, apparsa come trafiletto su alcuni online ma alla quale non sembra sia stata data grande rilevanza né dai media né dalla politica), durante la quale si è rivendicato il fatto che centinaia di migliaia di lavoratori sono a casa da febbraio, in gran parte senza più alcuna copertura. Questo per chi crede ancora che “con la cultura non si mangia” (affermato, prima, da Tremonti e, poi, da Obama, giusto per chiarire che il settore non piace al potere in generale indipendentemente dal colore della casacca) o che coloro che esercitano questo mestiere siano dei semplici dilettanti che possono anche dedicarsi a cose più ‘serie’.
Ma poniamoci anche un’altra domanda: in nome di un bene superiore, qualsiasi esso sia, vogliamo davvero rinunciare alla nostra socialità e alle arti? Le misure decretate con semplici atti amministrativi che tolgono ossigeno alle attività economiche e cancellano le libertà personali sono commisurate all’effettivo pericolo (Svezia docet)? Quale sarebbe l’uomo nuovo partorito dalla pandemia se non il meccanismo di un ingranaggio dove ogni pezzo funziona a sé stante, parcellizzato, diviso, compresso e, magari, angosciato? Vogliamo un mondo dove il diktat della sicurezza a ogni costo (il parallelismo migranti/Covid-19 andrebbe approfondito) ci porterà – middle class occidentale tecnologica – a rinchiuderci nelle nostre quattro mura, mentre in milioni moriranno di fame? Fatto denunciato dalla scrittrice e attivista politica Arundhati Roy così come dal Direttore del World Food Programme, David Beasley, nel suo discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite lo scorso 17 settembre – quando ha anche ammesso un fatto che noi avevamo già sottoposto all’attenzione dei lettori, ossia che in Africa non si sarebbe morti di Covid-19 bensì di fame e di mancanza di cure a causa della sospensione dei servizi sanitari dovuta alla pandemia (https://www.theblackcoffee.eu/il-peso-delle-parole/).
Ma torniamo al teatro e, per una volta, invece di disquisire noi giornalisti, facciamo parlare un tecnico, per la precisione un macchinista, che lavora nel campo da quasi vent’anni e può raccontarci non solamente perché il suo è un mestiere e non un hobby ma anche l’importanza del teatro per chi lo fa, per chi lo vive o semplicemente per coloro che lo fruiscono.
I tecnici del teatro come si formano?
«Io sono un macchinista e il mio percorso è simile a quello di altre persone che ho conosciuto in quasi vent’anni di attività. Di solito si comincia per caso, a meno che non si provenga da una famiglia di teatranti. Mentre frequentavo l’università, per raggranellare qualcosa, ho preso a lavorare come facchino e, col tempo, il teatro con il quale collaboro più di frequente, mi ha chiesto se volessi inserirmi e impegnarmi maggiormente. Ho accettato e, pian piano, ho cominciato a conoscere questo mondo, al quale mi sono appassionato. I corsi specialistici, per esempio, come tecnico luci (che anch’io ho frequentato per ampliare le mie conoscenze), sono pochi. Questo è un mestiere che si apprende facendolo, sul palco. Vi è molta artigianalità».
In tempi normali quali sono le forme contrattuali in uso?
«Purtroppo, l’assunzione diretta a tempo indeterminato, in un teatro, è sempre più rara. Per quanto mi riguarda, io (come molti altri) lavoro in una cooperativa di servizi per lo spettacolo dal vivo. Cooperative che, spesso, hanno filiali che si diramano sull’intero territorio nazionale. Io firmo, di volta in volta, contratti a tempo determinato e sono un lavoratore intermittente. I contratti sono stabiliti, in realtà, da noi lavoratori. Quando sappiamo che avremo delle chiamate dai teatri, firmiamo contratti a 3/6 mesi o per periodi più brevi o più lunghi. Nel momento che siamo assunti, versiamo una quota associativa mensile alla cooperativa ma la stessa, tranne rari casi, non ci procura il lavoro – che è frutto di contatti personali ed esperienza sul campo. Ci si appoggia a queste cooperative, generalmente, solo per evitare di aprire una partita Iva e dover sostenere le spese conseguenti – anche se le trattenute da parte della cooperativa sono sostenute. Personalmente, me ne sono pentito. Ho vissuto per quasi vent’anni nella speranza di essere assunto dal teatro, credendo a vaghe promesse che poi non si sono mai concretizzate».
Se vi sono migliaia di attori che ormai sopravvivono con meno di 5.000 Euro lordi l’anno, quale può essere il guadagno annuale netto di un tecnico?
«Effettivamente gli attori guadagnano meno dei tecnici. E io mi sono imposto di non accettare compensi che considero eccessivamente bassi. Se lo facessero anche i miei colleghi, forse potremmo tutti avere una maggiore forza contrattuale. Per quando mi riguarda, ma anche pensando ad altri collaboratori intermittenti o assunti direttamente dai teatri, posso dire che il guadagno netto annuale si aggira intorno ai 19/20.000 Euro. Mentre le spese vive – di trasporto, l’eventuale commercialista, eccetera – sono a carico nostro».
Con l’emergenza Covid-19 quali coperture ha avuto da parte dello Stato?
«In quanto lavoratore a tempo determinato della cooperativa non ho potuto accedere alla cassa integrazione e mi sono state rifiutate le richieste per il bonus da 600 Euro; mentre, come lavoratore intermittente, grazie a un successivo decreto, ho potuto accedere al bonus per i mesi di marzo, aprile e maggio per un totale di 1.800 Euro (ma non per il mese di giugno). Dopodiché, come lavoratore a tempo determinato, ho chiesto la disoccupazione dal 1° luglio. Questa è la mia situazione e non sono un ragazzino, bensì un uomo con una famiglia e un figlio».
Ha ricevuto proposte di lavoro dopo la riapertura ufficiale dei teatri a metà giugno?
«Sì ma molto limitate. Nello specifico, in quattro mesi ho lavorato 6 giorni in un teatro, 7 in un altro e 2 li farò a breve. Rispetto alla disoccupazione, la stessa non mi è stata sospesa ma ho dovuto comunicare all’Inps, a fine mese, le giornate lavorate, che poi l’Ente mi ha scalato dai conteggi».
Le offerte economiche che ha avuto sono uguali a quelle pre-Covid o si nota un abbassamento delle stesse?
«Indipendentemente dal Covid-19 sono anni che i teatri cercano di tagliare i compensi dei tecnici. Per assurdo, prendevo di più al netto a ora, quasi vent’anni fa, quando facevo il facchino, che non adesso – nonostante sia un macchinista professionista con esperienza e capacità. Malgrado l’inflazione, attualmente un facchino guadagna circa la metà, o forse meno, di quanto prendevo io a 18 anni!».
Esistono associazioni di categoria nel vostri settore e, se sì, come si stanno muovendo?
«Per quanto mi riguarda, ho chiesto alcune informazioni contrattuali una sola volta alla Cgil. I sindacati confederali sono quelli che si occupano prevalentemente del nostro settore, anche se non vedo una grande incisività nelle loro iniziative o vertenze. Siamo una categoria sicuramente poco considerata, rispetto ad altre, e abbastanza sottovalutata in ogni settore. A dirla tutta, ci manca un vero riconoscimento sociale ed economico. Faccio un esempio: se vado in Comune a rinnovare la carta d’identità e mi chiedono quale sia la mia professione, alla mia affermazione di essere un macchinista, rispondono scrivendo ‘operaio’».
Dato che alcuni politici danno per certo che la società e l’essere umano siano cambiati a causa del Covid-19 e che alcune attività a breve scompariranno, quali alternative reali di lavoro ha un tecnico teatrale?
«Ci ho pensato molto, aldilà del momento contingente. Penso che se dovessi fare un altro lavoro, sarei in difficoltà soprattutto a livello di ambiente. Il teatro è un universo particolare, a sé stante e finché non lo vivi dall’interno non lo comprendi appieno. In base alle mie capacità, come macchinista, forse potrei andare a montare le cucine. Ma la mia domanda, il mio dubbio è: “sarei felice com’ero prima?”. Il teatro è un modo di vivere, di rapportarsi con le altre persone, di interagire. Un delicato meccanismo fatto di arte e artigianalità. Il teatro è una grande famiglia. Ovviamente ci sono parenti meno simpatici, ma la maggioranza è straordinaria».
10 ottobre 2020
In copertina: Foto di Julia Schwab da Pixabay.