Quando l’azione teatrale si fa politica
di Simona Maria Frigerio
L’uscita del nuovo numero di Connessioni remote – la rivista della Statale di Milano diretta da Annamaria Monteverdi che accoglie anche la testimonianza del regista Carlo Presotto – ci dà l’occasione per raccontare l’esperienza di impegno civile del Presidio No Dal Molin che, tra le varie forme di manifestazione non violenta contro l’allargamento della base militare statunitense a Vicenza, fece propria anche l’azione teatrale – rinsaldando quell’antico legame tra disubbidienza civile, spirito rivoluzionario ed estro artistico che, nel Novecento, aveva dato origine ai versi di Majakovskij recitati nelle fabbriche così come al teatro di strada dei Living Theatre. E sulla stessa scia pensiamo anche, tra le molte esperienze degli anni ultimi anni, alla performance itinerante ideata dal Teatro dell’Orsa per le vie di Reggio Emilia, intitolata Argonauti (https://teatro.persinsala.it/argonauti-alla-ricerca-del-vello-doro-della-dignita/43169/amp/); al teatro immersivo o esperienziale dei Chille de la Balanza in Kamikaze; al Cuore di Tenebra proposto, al Funaro di Pistoia, dal Teatro de los Sentidos; o di Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier – tutti, corrosive denunce della burocrazia dello sterminio o del sadismo proprio dell’animo umano e della facilità di sottomettersi e sottomettere per un fine superiore, laddove l’atto rivoluzionario dello spett-attore è la chiave di volta della presa di coscienza.
Il contesto
Prima di intervistare il regista Carlo Presotto – e, con lui, Chiara Spadaro e Rosella Pizzolato, come protagonisti e testimoni di quel Movimento che si sviluppò tra il 2007 e il 2013 – cerchiamo di capire di cosa dialogheremo insieme. La premessa è che oggi, in quell’Italia che per ben due volte (con i referendum del 1987 e del 2011) ha votato contro le centrali nucleari per uso civile, sono presenti diverse testate nucleari (ossia armi offensive). Ad Aviano e a Ghedi, l’Italia – secondo il Rapporto di Greenpeace Italia del 2020 – ospita ben 40 testate statunitensi, posizionando il nostro Paese al secondo posto in fatto di disponibilità nei confronti del nuclear sharing, l’accordo che rientra nella cosiddetta politica di deterrenza atomica della Nato (secondi, solo, alla Turchia, che ne stocca 50). Tra l’altro, come denuncia Sofia Basso nel succitato rapporto: “Un attentato contro le basi militari di Aviano o Ghedi potrebbe provocare dieci milioni di vittime”.
Ma non basta. In un periodo di grave crisi economica sarà bene che gli italiani sappiano che ogni anno il nostro Paese (secondo l’Osservatorio sulle spese militari italiane Milex) spende circa 20 milioni di Euro per stoccare in sicurezza dette testate e per la manutenzione degli aerei che dovrebbero sganciarle non si sa su quali popoli – nonostante l’Italia ripudi la guerra fin dall’articolo 11 della Costituzione. Ma non solo, sempre secondo www.milex.org, il nostro Paese ha deciso di fare un importante investimento optando per l’acquisto di ben 90 cacciabombardieri F-35 (che hanno la capacità di sganciare le testate nucleari), per i quali è prevista la spesa di “almeno 14 miliardi di euro (di cui 4 già pagati), cui vanno aggiuntialmeno 35 miliardi di Euro di costi operativi e di supporto logistico per i trent’anni di vita di questi novanta aerei”. Tutto ciò a fronte di una ricaduta occupazionale che si stimava in 10 mila unità, ma che parrebbe, sempre secondo Milex, essersi ridotta a circa 1.500 lavoratori, dei quali 600 precari.
E chiudiamo con un’amara considerazione sull’incapacità, tutta italiana, dei politici di mantenere le promesse elettorali. Nonostante il Movimento 5 Stelle a suo tempo avesse affermato di essere contrario all’acquisto degli F35 e parte del Pd (con il suo Segretario, Nicola Zingaretti), si fosse mosso su direttrici similari, entrambi – in Parlamento – hanno votato altrimenti (si veda il pezzo a riguardo di Giulio Marcon, portavoce della Campagna Sbilanciamoci: https://www.huffingtonpost.it/entry/f35-il-voltafaccia-dei-5-stelle-e-del-pd_it_5dd4eeece4b010f3f1cfac07).
L’alternativa
Il 22 gennaio è entrato finalmente in vigore il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPNW). In questa data simbolicamente importante, il nostro Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (ricordiamo che Ministro era il pentastellato Luigi Di Maio), affermava sul sito ufficiale www.esteri.it: “Pur nutrendo profondo rispetto per le motivazioni dei promotori del Trattato e dei suoi sostenitori, riteniamo che l’obiettivo di un mondo privo di armi nucleari possa essere realisticamente raggiunto solo attraverso un articolato percorso a tappe che tenga conto, oltre che delle considerazioni di carattere umanitario, anche delle esigenze di sicurezza nazionale e stabilità internazionale”. Ossia, pur condividendo i principi, per mantenere la pace non possiamo fare a meno di armi che, se utilizzate, porterebbero alla fine dell’umanità e non solamente alla distruzione di una nazione.
L’accusa del nostro Ministero ai promotori del TPNW sarebbe, però, un’altra: “che l’approccio migliore per conseguire un effettivo disarmo nucleare implichi un pieno coinvolgimento dei Paesi militarmente nucleari laddove invece – dal momento in cui è stata lanciata l’iniziativa del Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari – abbiamo assistito a una crescente polarizzazione del dibattito in seno alla comunità internazionale”. Traduciamo, come sempre, per chi non fosse avvezzo al linguaggio politico-diplomatico: l’Onu avrebbe portato a una dicotomia insanabile tra coloro che sono pro e coloro che sono contro gli armamenti nucleari, mentre esisterebbe una terza via, che siamo in grado di preconizzare solo noi italiani, ovvero ‘armi nucleari ni’ – o meglio ‘siamo contrari ma ce le teniamo’.
Al linguaggio ipocrita della politica si potrebbe rispondere facendo proprie le parole di Marc Finaud (pubblicate su: https://www.swissinfo.ch/ita/in-vigore-un-nuovo-trattato_le-armi-nucleari-sono-davvero-diventate-illegali-/46308770). In effetti grazie al TPNW (firmato, al momento, da 86 Stati e ratificato da 51) non si vieta solo l’impiego delle armi nucleari ma anche la loro produzione, i test e lo schieramento (ossia il nuclear sharing di cui sopra). Come spiega Finaud: “La cosa più probabile è che negli Stati che hanno firmato il TPNW, le banche, le aziende, le università e i privati non saranno autorizzati a contribuire allo sviluppo di armi nucleari, nemmeno nei Paesi che non aderiscono al trattato” e ciò, alla lunga, potrebbe trasformarsi davvero in un deterrente attivo. Questo perché, come specificato nello stesso articolo e: “come riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 1996, nessun impiego di armi nucleari può essere compatibile con l’obbligo di distinguere tra obiettivi civili e militari, o di astenersi dal causare ‘danni superflui o sofferenze inutili’. È questo approccio umanitario che ha ottenuto il sostegno di una grande maggioranza di Stati”. Stati che, secondo il nostro Ministero degli Esteri, avrebbero dovuto rimanere alla finestra in attesa che Usa e Cina, Russia e Francia, India e Pakistan, Israele e Uk, eccetera, decidano di fare a meno dei loro arsenali – con buona pace dei diritti dei popoli.
Spiace notare che altre nazioni europee, forse più indipendenti dai diktat statunitensi, hanno restituito tali armi al mittente; mentre molti altri Paesi non le hanno mai ospitate – ma si sa, l’Italia soffre ancora della sindrome da Piano Marshall, o di un complesso di sudditanza che stenta a venire meno.
La battaglia dei No Dal Molin, la Nato e il ‘diktat’ di Prodi
Ma entriamo con i piedi nel piatto e cerchiamo di capire cosa è accaduto a Vicenza. Nel 2004 gli Stati Uniti chiedono al Governo italiano di allargare la base vicentina, ma occorrono circa due anni perché tali trattative diventino di pubblico dominio. Dopo il cosiddetto ‘Editto di Bucarest’, come fu soprannominato dagli oppositori il sostegno al progetto Usa per una seconda base nel vicentino dell’allora Primo Ministro dell’Ulivo, Romano Prodi (il 16 gennaio 2007, durante una sua visita in Romania), si costituisce il Presidio permanente No dal Molin, organizzato da vari spezzoni della società civile vicentina.
Aggiungiamo anche qualche riga di storia. La presenza degli statunitensi in Italia è dovuta all’adesione del nostro Paese alla Nato, l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, istituita nel 1949 con il Patto Atlantico e che, durante gli anni della Guerra Fredda, era intesa come una forma di difesa collettiva. Dopo la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento del Patto di Varsavia, la Nato si è trasformata, essenzialmente, in un trattato di partenariato militare tra Paesi aderenti. Scaduti gli ideali democratici (o pseudo tali) che ne permisero la costituzione, oggi impone l’alleanza militare con Paesi quali la Turchia, l’Ungheria e la Polonia. E se sulla Mezzaluna di Erdoğan, artefice (grazie all’avallo degli Usa) dell’invasione del nord della Siria a scapito dei curdi, non ci dilungheremo; la Polonia, proprio in questi giorni al centro delle proteste per la nuova norma che vieta l’interruzione volontaria di gravidanza anche in caso di malformazione del feto, era la nazione che aveva bloccato a fine 2020, insieme all’Ungheria, l’approvazione del Bilancio pluriennale europeo per evitare – esattamente come i magiari – interferenze in ambito di diritti del lavoro, civili e umani.
In quell’Italia del 2007 cosa poterono la cittadinanza e il teatro contro decisioni prese ai più alti livelli per ragioni di realpolitik, ossia di quella prassi avulsa da ideali tanto cara a Diezel come a Bismarck?
Un altro mondo è ancora possibile?
A questo punto incontriamo – via Skype – alcuni tra gli organizzatori del Presidio No Dal Molin e, soprattutto, delle azioni teatrali che ne costituirono un’originale manifestazione. Carlo Presotto, regista, drammaturgo, attore e ideatore della Silent Walk (di cui parleremo in seguito); Chiara Spadaro, giornalista, antropologa e ricercatrice presso l’Università di Padova; e Rosella Pizzolato, insegnante di italiano per stranieri, con una pluriennale esperienza nella gestione di laboratori teatrali e che ha altresì collaborato con La Piccionaia – il centro di produzione teatrale che riunisce varie realtà con la direzione artistica di Presotto.
La rivista universitaria Connessioni Remote, fondata da Annamaria Monteverdi e dedicata a Giacomo Verde, vi ha dato la possibilità di riportare alla ribalta l’esperienza teatrale connessa con il Movimento No Dal Molin a Vicenza. Quanto è importante, oggi, ricordare quei giorni e quella battaglia di civiltà?
Carlo Presotto: «Il primo elemento da considerare è il tema della perdita di memoria e, al contrario, della conquista di memoria come patrimonio. Faccio un esempio relativo al dibattito che si aprì all’interno del movimento che prese parte al G8 di Genova, quando si creò uno scarto tra chi aveva praticato la piazza fino al 1977/79 e ne aveva memoria, sapendo che quella cosa, impostata in quei termini, aveva un livello di rischio eccessivo, e gli altri. Ci fu un lungo dibattito interno e, alla fine, si decise di andare. Io non ero lì ma Giacomo Verde, che fu presente, fu anche una delle memorie visive più lucide e importanti. Noi abbiamo difficoltà, oggettivamente, a far tesoro della memoria – non tanto dell’aneddoto o del ritornare a come eravamo – quanto proprio dell’esperienza. Fare esperienza collettiva è un tema che sento fortemente. D’altronde, un altro elemento interno ai movimenti per il cambiamento è il superamento di ogni generazione rispetto alla precedente, anche quando le due sono in sintonia. Mi piace lanciare questa palla a Chiara, dato che lei appartiene a un’altra generazione rispetto a me e a Rosella, e il No Dal Molin fu un movimento intergenerazionale. Questa trasversalità è comune anche ai No Tav e, tendenzialmente, al movimento nonviolento. Dirò un’ultima cosa: io ho iniziato a praticare l’azione non violenta e quella artistica non violenta perché mi è stata tramandata dai primi obiettori di coscienza, dai quali mi divide lo stile e forse anche il modo di vedere il mondo; però, Matteo Soccio, che andò in galera quando ero in prima superiore – consegnandosi alla polizia come disobbediente perché allora l’obiezione era vietata – fece sì che quando arrivò il mio momento – e l’obiezione di coscienza, nel frattempo, era diventata un diritto – fui tra i primi a chiedere l’autodestinazione. Idee, persone ed esperienze possono avere un effetto trainante, nonostante una certa difficoltà nel farne tesoro».
Chiara Spadaro: «Colgo la palla al balzo portando una riflessione personale sul perché oggi sarebbe importante recuperare quella memoria, in questa situazione pandemica o post-pandemica. Allora era un momento di costruzione di un immaginario collettivo, associato a pratiche molto concrete. Vi era uno slancio effettivo rispetto a ciò che volevamo diventasse la nostra città. Oggi, a partire da quella esperienza e dai tanti semi che ha gettato – cercando anche di capire se hanno germogliato e come – bisognerebbe tornare a chiedersi ‘qual è la Vicenza che vorremmo’. Occorrerebbe ripartire da lì. Necessitiamo di un nuovo slancio ma, al contrario di allora, oggi siamo tutti molto più isolati».
Teatro – impegno politico – spazi non teatrali. Tornare in strada e ricominciare a dialogare con le istanze sociali può essere una risposta alla crisi delle arti performative provocata dalla pandemia, o ci dovremo arrendere al teatro online e alle piattaforme come ItsArt?
Rosella Pizzolato: «Vedo questo momento come un’attesa. Ma sono un po’ pessimista: non credo che si possa costruire molto. Sebbene si facciano molte esperienze – a volte anche con piacevoli sorprese rispetto a ciò che si può fare online – questo tempo sospeso sta diventando troppo lungo e, secondo me, se il primo lockdown è stato vissuto come un’attesa che avrebbe avuto fine, adesso dobbiamo porci in un altro modo: occorre costruire qualcosa da portare con noi alla fine del tunnel. Forse Carlo ha più strumenti per dirci se si stanno costruendo dei percorsi interessanti che potranno proseguire. Personalmente non ho questa sensazione».
Chiara: «Ho un’impressione simile a quella di Rosella: non vedo risposte innovative in questo momento. Ad esempio, collaborando come ufficio stampa per il settore cultura del Comune di Marano (Vicentino, n.d.g.) che, prima della pandemia, era molto effervescente, mi accorgo che adesso è tutto fermo e le istituzioni hanno difficoltà a immaginare come coinvolgere nuovamente le persone in questa situazione. Forse sarà solo una questione di tempo. Personalmente non credo che il teatro come lo conoscevamo morirà. Torneremo a quel teatro anche perché sento che c’è molta voglia di ritrovarsi».
Carlo: «Devo dire che questa occasione di confronto permette anche a me di capire cosa si pensi al di fuori del teatro. Io che vi lavoro sono ottimista. Però è un ottimismo dovuto al fatto che vengo a conoscenza di poche cose – sebbene molto significative – che stanno succedendo e che porteremo con noi, finita questa esperienza, come patrimonio. La prima è l’arrivare a maturazione una riflessione sul rapporto tra teatro e medium. Tema molto caro ad Annamaria Monteverdi – che lo ha approfondito in vari scritti e di cui mi occupo anch’io in relazione all’infanzia. Quando indago il rapporto del corpo dei bambini con la televisione, mi viene in mente una frase di Giacomo Verde: “I bambini sanno benissimo la differenza tra una cosa e ‘quella’ cosa in tivù”. Adesso noi lavoriamo con le ‘figurine’, alludendo a una presenza. Queste figurine hanno senso quando mettono in moto il corpo degli spettatori aldilà dello schermo. Quindi, alcuni lavori radiofonici di realtà toscane, oppure il teatro al telefono, o ancora l’esperienza proposta dalla danzatrice Valentina Dal Mas che, attraverso dei podcast, propone movimenti, azioni, giochi ad adulti e bambini chiusi in casa. Diciamo che, in questa situazione, l’attore sta affrontando il discorso del medium come attivatore del lavoro dello spettatore. Un teatro totalmente post-drammatico. Altre esperienze interessanti sono quelle di Davide Venturini del TPO di Prato con lo spettacolo ideato per le LIM (le lavagne interattive, n.d.g.) delle scuole, in cui i bambini davvero interagiscono; di Giallo Mare a Empoli, Scarlattine Teatro a Campsirago e il ‘teatro delivery’ dei Kepler 452 a Bologna, in cui un rider consegna uno spettacolo a domicilio – ovvero, lo spettatore segue l’attore attraversare la città via zoom e, alla fine, questi gli suona al campanello. Tutte interazioni molto interessanti. Per quanto riguarda, invece, le piattaforme, stiamo parlando di televisione e la stessa si può fare e bene. Anzi, spero che questa occasione serva a schiodare alcuni modi di farla – ma non vedo tanti segnali positivi al riguardo. D’altronde, riprendere – e trasmettere – uno spettacolo teatrale è interessante solamente per gli appassionati e, francamente, il mio parere è negativo e non penso avrà futuro».
Nel contesto del Presidio No Dal Molin, un ruolo fondamentale lo svolsero le donne. Ci raccontate l’esperienza del teatro invisibile, che si svolgeva per strada con azioni non immediatamente codificabili come teatrali?
Rosella: «Ricordo, come parte attiva del movimento, che la scelta del femminile non fu propriamente tale. Credo si sentisse il bisogno di esserci con il corpo e questo, sì, è parte delle prerogative femminili. Rammento queste assemblee fiume, durante le quali si restava a lungo seduti dentro al tendone dove si trovava il presidio. C’era bisogno di fare qualcosa col corpo e di uscire in mezzo alla gente, proponendo azioni che non fossero solamente consegnare i volantini – anche se si faceva pure quello. Direi che fu una combinazione di energie che ebbe del miracoloso per Vicenza da tutti i punti di vista. In quei primi momenti vi era una partecipazione davvero intergenerazionale e il teatro invisibile fu portato avanti da persone di ogni età e anche opinione politica o status sociale».
Carlo Presotto ha collaborato per anni con Giacomo Verde, il ‘padre’ dell’artivismo. La prima domanda è cosa dovremmo, noi tutti, recuperare del pensiero dell’uomo e dell’artista recentemente scomparso. La seconda riguarda le regie di Presotto di azioni pubbliche per Greenpeace e Lega Ambiente. Qual è la sua visione di un impegno teatro/vita?
Carlo: «Il primo elemento da sottolineare è l’idea che il teatro e l’arte nascano da un’intenzione trasformativa nei confronti della realtà, da un bisogno personale di dare un proprio contribuito al cambiamento. Questo è comune a molti artisti ed è una proiezione al di fuori di sé. Altri, al contrario, seguono la direzione opposta: sono rivolti verso il proprio interno e ci consegnano degli universi che sono quelli della mente, della profondità dell’anima, e così via. Le definirei modalità complementari che originano, però, sempre da una necessità artistica. Nel caso di Giacomo Verde, la sua necessità artistica nasceva dalla volontà di creare un’arte relazionale. Secondo me, prima ancora che nascesse l’estétique relationelle, Verde la teorizzava e la praticava (definizione di un insieme di pratiche d’arte contemporanea, sviluppatesi intorno alla metà degli anni 90 del Novecento, che prevedono forme di compartecipazione del pubblico, n.d.g.). Quando ho riletto Nicolas Bourriaud (autore del libro Estétique relationelle, Presses du Reel, 1998, n.d.g.), mi sono reso conto che Giacomo, come altri, aveva portato avanti quelle idee per anni, grazie anche al fatto che iniziò a esprimersi come artista in un momento di grande fermento creativo – con il fenomeno teatrale dei Gruppi, alla fine degli anni 70. In secondo luogo, Verde era sempre in relazione con chi si dedicava al tema della tecnologia. La sua scelta, anche politica, era di riconoscere nella tecnologia una forte ambivalenza – dato che può essere uno strumento di controllo delle persone – alla quale bisogna rispondere, come facevano gli attivisti statunitensi, con un: “Don’t hate the media, become the media!”. Questa è stata la sua lezione. Io, essendo un pochino più giovane – della serie che ero in terza superiore quando loro erano all’università – lo rincorrevo mantenendo una forte componente di gioco. La sfumatura diversa nei mie percorsi è stata quella di conservare sempre una dimensione ludica, di lavorare molto con i bambini e le giovani generazioni. E, quindi, anche nei progetti con Greenpeace o Lega Ambiente ho cercato di fare animazione teatrale – ricollegandomi anche ad altri maestri, come Giuliano Scabia, colui che fece giochi di animazione e poi portò, insieme a Basaglia, i matti fuori dal manicomio con Marco Cavallo (tra l’installazione e la macchina teatrale, l’opera fu realizzata nel ‘73 all’interno del manicomio di Trieste da un’idea di Scabia, Giuseppe Dell’Acqua, Dino e Vittorio Basaglia, n.d.g.). Per me quella è un’azione artistica determinante. Oggi ci sono esperienze europee e non solo italiane – come i Rimini Protokoll o Agrupación Señor Serrano – fortemente in continuità e in sintonia con un processo che affonda le sue radici nel dadaismo, nel situazionismo, in breve in un bel percorso che continuiamo a sviluppare».
Tornando al Presidio dei No Dal Molin, intervenne anche Alberto Peruffo con The Wandering/Burning Cemetery. In quel caso una performance itinerante con rogo finale – forse catartico. Avete partecipato a quell’esperienza, magari come spettatori?
Chiara: «Non ho partecipato alla performance in cui, alla fine, si bruciarono le croci ma ad altre iniziative similari, dove si utilizzavano vari dispositivi alternativi al fuoco. Ne ricordo una al Parco della Pace, imbiancato di neve, in cui si usarono dei fumogeni rossi che, simbolicamente, rimandavano alla guerra, alla morte, alla realtà della base militare che sarebbe sorta lì accanto. Ciò che mi è rimasto è il ricordo di iniziative tutte molto emozionanti da vivere in prima persona. Mi sentivo parte di un corpo collettivo che agiva in un preciso momento, in perfetta sincronia, e che dava la sensazione a ognuno di contare, di avere un ruolo insieme agli altri. Nessuno era indispensabile, ma ciascuno era importante».
Carlo: «Vorrei sottolineare come la percezione del corpo collettivo sia l’elemento forte del discorso di Chiara. Personalmente, ho sempre vissuto i lavori di Alberto come delle celebrazioni, dei rituali, in cui non si capisce bene cosa stia succedendo ma si sente un flusso di energia che scorre. Per quanto riguarda l’elemento catartico, non direi che quel tipo di esperienza sia stata risolutiva: non era un rito di passaggio o di transizione. Non si risolveva mai. In effetti, non abbiamo chiuso la questione No Dal Molin. Neppure quando è stata costruita la base. Sento che quel laboratorio continua in qualche modo a covare sotto le ceneri, in altre forme, sempre all’interno di un discorso di un’altra città possibile, di un’altra relazione possibile».
La base vicentina è stata poi ampliata e, su territorio italiano, ospitiamo anche testate nucleari. Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto per chi allora partecipò al Movimento No Dal Molin?
Chiara: «Per me, bicchiere mezzo pieno – senza dubbio. Soprattutto sul piano delle relazioni interpersonali. Non siamo riusciti a fermare la costruzione della base anche se, rispetto al progetto inziale, è stata dimezzata. Sull’altra metà dell’area, oggi, sorge un parco che, forse, è un progetto diverso da quello che avevamo immaginato – definito dalla burocrazia come ‘compensazione’. Nel frattempo, gli scenari geopolitici sono cambiati e forse gli stessi ideatori si sono resi conto che quell’allargamento della base militare non aveva più senso. Per noi, al contrario, è rimasto il senso della mobilitazione, sia come momento di partecipazione, importante per la nostra città, sia perché ha gettato le basi per altri percorsi. Ancora oggi, se mi guardo intorno, mi accorgo che molte tra le mie amicizie, che continuo a frequentare, le ho incontrate nel Movimento No dal Molin».
Carlo: «Chiara ha spiegato bene il tema della relazione. Il No dal Molin è stato un laboratorio che ha cambiato la città. Oggi sarebbe interessante l’analisi di come sia stato metabolizzato questo cambiamento. Di sicuro a Vicenza c’è un grosso laboratorio di progettazione partecipata che lavora su bandi europei o territoriali, mettendo insieme risorse di vario tipo, in rete, nel quale capita spesso di partecipare a progetti interessanti con persone che provengono da questo patrimonio relazionale. Con Rosella, ad esempio, abbiamo curato un progetto europeo sull’uso del teatro per l’inclusione dei migranti. Adesso, in risposta allo spopolamento, stiamo lavorando alla difesa delle piccole comunità dell’area alpina attraverso un altro progetto che punta sulla ricostruzione dell’identità. In pratica, il No Dal Molin sta continuando a generare percorsi, anche artistici. Vicenza, dal punto di vista teatrale, è molto vivace. Per quanto mi riguarda personalmente, Silent Play è diventato uno tra i miei lavori principali. L’estate scorsa, ad esempio, l’ho ripensato: Sotterraneo, Massimiliano Civica e Anagoor hanno realizzato una scrittura collettiva sulla città dopo la pandemia come base narrativa per una nuova versione di Silent Play, che abbiamo portato in giro per l’Italia – ma che affonda le sue radici in quei tentativi di scrittura collettiva dei tempi del No Dal Molin. In altre occasioni la scrittura collettiva ha interessato le comunità territoriali – come nel caso delle donne di Mogliano Veneto, che raccontavano la loro città, o i ragazzi delle superiori di un quartiere periferico di Padova, che narravano il rapporto tra la bellezza e la bruttezza dell’Arcella, dove vivevano».
Rosella: «Rimangono nel bicchiere mezzo pieno le relazioni e le esperienze – non necessariamente performative. Basti dire che lì sono nati, credo per la prima volta a Vicenza, i mercati dei gruppi di acquisto solidale. Non so se, al di fuori del movimento, si sarebbero create le sinergie per attivarli. La sete di partecipazione convogliata in quel movimento ha lasciato tracce, si è trasformata, ma è ancora qui tra noi».
Venerdì, 5 febbraio 2021
In copertina: Bandiera del Movimento No Dal Molin. Foto di Luciano Uggè.