Palestina, Israele, Germania, Iran, Libia, Italia e Celac
di Luciano Uggè (traduzioni di Simona Maria Frigerio)
Il nostro consueto viaggio nel mondo parte dal Medio Oriente dove sembra valere il biblico: “Occhio per occhio”, che potremmo completare con: “e l’umanità restò cieca”.
Il 26 gennaio 2023 l’Ambasciata dello Stato di Palestina in Italia denunciava (testuali parole) il “massacro” avvenuto quella stessa mattina, a “Jenin, nel nord della Cisgiordania, occupata da Israele”. Il comunicato denunciava che “nel silenzio internazionale, i militari israeliani” facevano “irruzione nella città e nel suo campo profughi, uccidendo almeno 9 persone tra cui una donna di 60 anni (diventate poi 10, in quanto è stato assassinato anche un ragazzo di 22 anni, Yussef Abdel Karim Hussein, nel villaggio di a-Ram, a Ramallah, n.d.g.), e ferendone più di 20, compreso un bambino e alcuni casi gravi”. Se non bastasse le forze di occupazione israeliane avrebbero “interrotto l’alimentazione elettrica del campo, negato l’accesso a paramedici e giornalisti, e aperto il fuoco direttamente su un’ambulanza. I soldati israeliani” avrebbero altresì “sparato gas lacrimogeni sul reparto pediatrico dell’ospedale governativo di Jenin, causando difficoltà respiratorie a mamme e bambini”. Questo del 26 gennaio non è il primo attacco israeliano contro civili palestinesi. Tali raid si sono intensificati a partire dal 2022 – ufficialmente per combattere la resistenza armata ma, realmente, per negare una volta per tutte il diritto di questo popolo all’autodeterminazione. Ciò che suscita, però, scandalo è che ostacolare i soccorsi è un crimine paragonabile alle azioni dei militari statunitensi denunciate da Collateral Murders e per le quali, ancora oggi, Julian Assange è perseguitato.
Wissam Baker, responsabile dell’ospedale pubblico di Jenin ha dichiarato ad Al Jazeera: “È un’invasione senza precedenti in termini di ampiezza e per il numero dei feriti” e ha poi proseguito: “L’autista dell’ambulanza” ha tentato di soccorrere “uno dei martiri a terra, ma le forze israeliane hanno sparato direttamente contro l’ambulanza impedendogli di raggiungerlo”. Anni fa rivelazioni similari sugli States avevano fatto scalpore, oggi i medesimi comportamenti non suscitano nemmeno il biasimo internazionale. Così come l’omicidio di Shireen Abu Akleh, corrispondente di Al Jazeera dai Territori Occupati per 25 anni, avvenuto lo scorso maggio mentre documentava un altro raid israeliano sempre nel campo profughi di Jenin.
La giustificazione del massacro, da parte di Israele, è stata come di consueto la guerra al terrore di Bushiana memoria, tradotto: il raid aveva lo scopo di ‘arrestare’ combattenti della Jihad islamica sospettati di “pianificare e portare a termine gravi attacchi terroristici multipli”.
Di fronte a quello che le Nazioni Unite hanno definito il peggiore anno dal 2005 per numero di palestinesi uccisi da parte delle forze israeliane – 127, a dicembre 2022, e tra questi almeno cinque minori e in gran parte civili. Di fronte all’Olocausto del popolo palestinese e al silenzio dell’Occidente – difensore delle regole. Di fronte all’uccisione di 29 palestinesi da parte degli israeliani, durante i raid, nel solo mese di gennaio 2023, ovviamente a scopo ‘anti-terroristico’ (ma le cui dinamiche si fatica a distinguere da quelle degli attacchi propriamente terroristici), hanno purtroppo risposto, il 27 gennaio, gli stessi palestinesi con un’azione di ritorsione. L’attacco – nel quartiere di Neve Yaakov, a Gerusalemme – ha causato 8 morti. L’assalitore, secondo il sito del Jerusalem Post, sarebbe il 21enne palestinese Alkam Khairi, il quale avrebbe aperto il fuoco contro i fedeli raccolti nella sinagoga di Ateret Avraham per la preghiera del venerdì per poi inseguire alcuni tra gli israeliani in fuga.
Freddamente calcolando saremmo uno a uno, ma sappiamo bene che il gioco al massacro si svolge su un altro campo, quello degli equilibri internazionali per cui il popolo palestinese può essere (come è stato negli ultimi 70 anni) sacrificato sull’altare dell’alleato di ferro degli States in Medio Oriente.
Gli eredi di der alte Fritz (1)
Nel frattempo, la Ministra degli Esteri tedesca (lo mettiamo al femminile anche per sottolineare la valenza del ‘pensiero della differenza’), Annalena Baerbock, esponente dei Verdi (ecologisti, pacifisti, socialisteggianti, eccetera) parlando, non al bar tra amici, ma al Consiglio d’Europa a Strasburgo, ha esortato i rappresentanti dei Paesi Europei ad aumentare il volume degli aiuti militari all’Ucraina, concludendo il suo discorso con tali parole (che in tempi di coerenza politica sarebbero pesanti come macigni): “Stiamo combattendo una guerra contro la Russia, non tra di noi”.
Di fronte a quella che è a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra e alla richiesta di spiegazioni da parte della Russia, il pindarico Cancelliere Olaf Scholz (dell’SPD), durante un’intervista alla ZDF “che chiedeva se la fornitura di carri armati all’Ucraina appena approvata non equivalga a una partecipazione attiva alla guerra”, rispondeva: “Assolutamente no” e, anzi, ribadiva (probabilmente pensando che i carri armati servano a piantare papaveri rossi – citando De André): “Non ci deve essere nessuna guerra tra la Russia e la Nato”. Persino Baerbock (che non si è dimessa dopo una simile debacle diplomatica né è stata espulsa dal famoso partita ecologista, pacifista, vagamente socialisteggiante o dal Governo per aver dichiarato unilateralmente guerra a un altro Stato, senza nemmeno consultarsi con il Primo Ministro e il Parlamento – tedesco ed europeo) avrebbe fatto una giravolta da acrobata, contraddicendosi pubblicamente con un – testuali parole – la Germania “non è parte in causa nel conflitto”.
Siamo alla farsa o alla fiera delle vanità? Ve lo figurate l’integerrimo ammiraglio Yamamoto, del cult di guerra Tora! Tora! Tora! che, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, si faceva le ‘pippe’ pensando alla reazione negativa della popolazione nipponica – causata dal fatto che la loro dichiarazione di guerra sarebbe stata presentata dopo e non prima del succitato attacco – se si trovasse di fronte a due personaggi non consequenziali come Baerbock e Scholz? Beati i tempi in cui chi dichiarava guerra, si assumeva la responsabilità politica di averlo fatto.
Il conflitto si allarga all’Iran?
Il capitalismo e lo zio Sam stanno annaspando e gli Stati Uniti, più consapevoli di noi europei del rischio di colare a picco, si stanno mettendo in salvo usando il nostro continente come zattera. Ma i colpi di coda dei neocon sono ancora frequenti e questa balena bianca che non vuole arrendersi può privare Achab anche più di una gamba.
In questo turbolento contesto fa quindi specie che tre droni (quadrirotori con piccole bombe, seconda l’Agenzia stampa iraniana, Irna) abbiano attaccato una struttura di difesa a Isfahan, nella zona centrale dell’Iran alle 23.30 di sabato 28 gennaio. Teheran non ha accusato, al momento, nessun Paese per l’attacco ma un drone è stato abbattuto e altri due sono stati fatti esplodere dalla difesa antiaerea. Non si registrano feriti e solo danni minori alle strutture.
Senza fare dietrologia, è comunque urticante pensare a quanti fronti di guerra – sul campo di battaglia, sugli scacchieri geopolitici o rinfocolati con gli armamenti perché proseguano a bassa intensità – si stanno aprendo.
Nel frattempo su L’Antidiplomatico, Michelangelo Severgnini (che avevamo intervistato a dicembre), il regista autore del docu-film e del libro, L’Urlo. Schiavi in cambio di petrolio, ci segnala che il legittimo governo libico (quello di Bengasi e Tobruk, per intenderci) non avrebbe gradito l’accordo tra il Premier Meloni e il Premier di Tripoli, Dabaiba – entità territoriale riconosciuta dall’Onu e da quell’Occidente che, dopo aver cooperato a far cadere il regime di Gheddafi, vuole pascersi sulle ricchezze energetiche del Paese nord africano con la complicità delle sue milizie (piano che pare si voglia replicare con la Russia).
Secondo l’accordo Roma/Tripoli, dal 2026 (il che significa che prevediamo di mantenere la Libia destabilizzata almeno per altri tre anni), l’Eni dovrebbe pompare 21 milioni di metri cubi di gas al giorno. Severgnini puntualizza che l’assegno (che potremmo aggettivare in bianco) di 8 miliardi di dollari, firmato dal nostro Premier “con il gas ha poco a che fare, ma è piuttosto un finanziamento alle milizie di Tripoli perché continuino a mantenere la capitale libica una roccaforte fuori controllo”. Spiace ricordarlo ma è il Governo di Tobruk che avrebbe dovuto, legittimato dal voto di tutti i libici del 2014, stipulare detto contratto. Eppure, come ci spiegava Severgnini nell’intervista: “L’Occidente sostiene il Governo illegittimo di Tripoli e le milizie perché tale città, oltre a essere la capitale e, quindi, dominarla è una questione di prestigio, ospita il NOC, ossia la National Oil Corporation, che è l’Ente di Stato pubblico per la vendita del petrolio e, soprattutto, la Banca Centrale Libica. Aggiungiamo un tassello. Una risoluzione dell’Onu del 2017 vieta alle autorità di Tobruk e Bengasi di vendere il petrolio libico sul mercato internazionale nonostante controllino l’80% del territorio libico e, quindi, tutti i pozzi petroliferi. Per venderlo sono costretti a mandarlo a Tripoli, dove finisce sotto il controllo militare delle milizie che si appropriano di un 40% intascandosi i relativi proventi” (2).
Il colonialismo continua a dominare i nostri rapporti con l’Africa e mentre a Meloni ma anche all’Onu sfuggono tali ‘sottigliezze’, alla Francia si sbattono in faccia, prima, le porte del Mali e, ora, quelle del Burkina Faso. Il mondo multipolare si avvicina a passi da gigante?
Oltre la dottrina Monroe interpretata da Olney?
Nonostante i tentativi “della destra di delegittimare la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños” (ossia il Celac), come scrive Prensa Latina, si è regolarmente svolto il VII summit dei Capi di Stato e di Governo, in Argentina, dove è stata confermata “la volontà di proseguire nella costruzione della Patria Grande”.
Rientrato in gioco il Brasile (di Lula), membro altresì dei Brics, con la presidenza temporanea dell’Argentina, l’incontro del Celac ha visto la partecipazione anche di sindacati, gruppi politici e attivisti per i diritti umani.
Come scritto sempre da Prensa Latina, nelle conclusioni i membri del Celac avrebbero posto come propri obiettivi: “difendere la cooperazione, l’autodeterminazione dei popoli, l’integrità territoriale, il non intervento negli affari interni degli Stati e la ratifica della regione come zona di pace”. Inoltre, il Latino-America e i Caraibi si pongono come aree libere dal colonialismo e contro il bloqueo imposto dagli States a Cuba.
Infine sarebbe emersa la chiara volontà di respingere le ingerenze statunitensi nel subcontinente e le azioni definite testualmente “golpiste” in Perù e Brasile, oltre al tentativo di uccidere la vice-presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner e l’attivista per i diritti umani e l’ambiente, la colombiana Francia Márquez.
Un altro mondo è ancora possibile?
- Il soprannome che l’esercito diede a Federico II di Prussia;
- l’intervista rilasciata a InTheNet: https://www.inthenet.eu/2022/12/09/intervista-a-michelangelo-severgnini/
venerdì, 3 febbraio 2023
In copertina: Foto di Hosny Salah da Pixabay (gratuita da usare sotto la licenza Pixabay)