
Giornata butō a Testimonianze Ricerca Azioni
di Francesca Camponero
L’origine del butō è da ricercarsi in Giappone, a cavallo fra il 1950 ed il 1960, e per parlare del contesto culturale giapponese in quegli anni è necessario confrontarsi con eventi molto gravi come una guerra appena terminata che lasciava nel Paese nipponico ferite quasi impossibili da rimarginare. La cultura di quei tempi era per forza dominata dalla contrapposizione tra il desiderio della ricostruzione e la pesante eredità bellica. La danza butō sembra un bisogno ancestrale di spingersi verso i confini più estremi del lavoro sul corpo e sull’azione fisica.
Dal Giappone degli anni Cinquanta sino ai giorni nostri il butō ha ispirato artisti di tutto il mondo, contaminando le più diverse forme di creazione per la scena. Oggi, dopo decenni di sviluppo, si è allontanato dall’essenzialità delle origini ed è diventato uno dei più interessanti esempi di commistione fra danza, teatro e mimica corporale. Sono ormai moltissime le compagnie non solo giapponesi che lavorano con il butō trovando sempre nuovi modi di adattamento al contesto contemporaneo. Quello che si è visto sabato 5 novembre alla sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Genova, all’interno della XIII edizione del Festival di Teatro Akropolis, fa parte di questo nuovo modo di interpretare questo stile, o meglio, tecnica, che va ben oltre la danza come comunemente viene intesa.
La performance, in prima assoluta, di Alessandra Cristiani dal titolo Matrice – da Ana Mendieta è la I tappa della trilogia La questione del linguaggio corporeo e l’arte di A. Mendieta, C. Cahun, S. Moon. La Cristiani, performer e danzatrice, dal 1996 indaga pensiero e pratica della danza butō e, come lei stessa afferma, ha lavorato sul suo corpo vincendo delle resistenze, escogitato un modo volto a ritrovare quell’attivazione corporea. Un lavoro che le dà la possibilità di guardarsi, ascoltarsi. Quando ha incontrato la danza butō per lei è stato un evento importante, in quanto è stata presa totalmente dalla pratica e dal pensiero. Ora, più in là cogli anni, ha compreso che era necessario anche l’allontanamento e il tradimento dalla figura del maestro, Masaki Iwana, e da altri danzatori butō.
Certo nella pratica una danzatrice non può dimenticare né tantomeno cancellare tutto ciò che le è stato insegnato, ma negli anni si può percepire l’importanza di stare dentro l’evoluzione organica di una necessità, annusare i cambiamenti del proprio corpo, le diverse percezioni e sensazioni. In fondo sono proprio i grandi maestri che, a un certo punto, quasi provocatoriamente chiedono ai discepoli di non seguirli più. È giunto il momento di trovare la propria strada, e così accade.
La percezione del cambiamento del proprio corpo è qualcosa di naturale per tutti e una ballerina questo lo avverte ancor di più. Bisogna però rimanerci dentro a questa evoluzione organica. Annusare i cambiamenti del proprio fisico, accettarlo e continuare ad amarlo. Il butō aiuta senz’altro in questo senso ed ecco che la Cristiani ha trovato il modo di prestare attenzione a ciò che cambiava, seguendo attentamente quanto diceva il suo maestro Iwana: “Il corpo e lo spirito vanno di pari passo”, un pensiero al quale lei torna sempre.
Matrice, ossia alla foce di se stessi, vuole il corpo come Mater, condizione generativa e trasformativa. Luogo attraversato e attraversabile. La Cristiani cerca la via per retrocedere alla sorgente nella visione di un corpo originario e salvifico. Quando appare sulla scena è vestita di una camicia bianca e un paio di pantaloni neri. Si avvia verso un quadrato soprelevato, una tela tesa sulla quale sta un cuore. Si tratta di una scultura in gesso bianca, grossa come un cocomero. La scultura (dell’artista Mirna Manni) cattura un raggio di luce proveniente dall’esterno che ne accarezza le forme. Il pubblico presuppone la performer interagisca con essa, ma non è così. La danzatrice si avvicina all’opera, ma non la tocca e non la sfiora neppure con uno sguardo. Accanto al quadrato soprelevato depone due coppe, una da un lato, l’altra dall’altro. Scopriremo poi che contengono un liquido rosso e dell’argilla. Danza spingendo il corpo oltre l’impossibile soprattutto piegando indietro la schiena. Poi si ferma, depone gli abiti e le scarpe in un angolo e quando ha finito si gira verso il pubblico completamente nuda. Una nudità che riveste prima col liquido rosso, simile al sangue e poi con l’argilla. Si sdraia sul quadrato in tela e qui comincia a contorcere ogni arto. Il ventre palpita, le gambe si aprono mostrando il sesso senza alcun pudore. Nulla di sensuale, nulla di osceno: un bisogno ancestrale di mostrare e dimostrare. Si allunga per la passerella che attraversa tutto il grande salone del Maggior Consiglio mentre il suono coordinato da Ivan Macera le va dietro seguendo in crescendo ogni suo movimento. Il tutto termina dopo una quarantina di minuti in cui il pubblico, siamo sinceri, non sapeva dove posare lo sguardo.
Un percorso atto a raccontare la ritualità di un viaggio alla ricerca di quella Matrice di cui ognuno ha bisogno, ma… si ma, perché alla fine l’emozione non arriva e allora o ci siamo persi qualcosa o quel qualcosa non è stato espresso al meglio.
“Il problema è far capire quel quid a cui le parole, da sole, non arrivano”, questa è la definizione che Montale diede di poesia nel discorso di accettazione del Nobel. Una definizione che siamo certi si possa applicare a tutta l’arte in generale, e più che mai al teatro.
Lo spettacolo è andato in scena nell’ambito di Testimonianze Ricerca Azioni:
Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio
Piazza Giacomo Matteotti, 9 – Genova
sabato 5 novembre, ore 16.00
Matrice – da Ana Mandieta
di e con Alessandra Cristiani
venerdì, 11 novembre 2022
In copertina: Alessandra Cristiani, Matrice – da Ana Mendieta, Spazio La Lupa, Tuscania, foto di Stefano Scherma (paesaggio).