Pandemia e guerra: l’Italia ne esce peggio
di La Redazione di InTheNet
Tornare in Thailandia dopo quasi tre anni e, come italiani, rivedere esattamente gli stessi prezzi di allora – sulla benzina come sui biglietti dei bus a media e lunga percorrenza – fa un certo effetto. E questa è una delle ragioni per cui si dovrebbe viaggiare: per essere in grado di fare confronti.
Se durante la pandemia, in Italia (a parte i carburanti alla pompa), non abbiamo visto particolari diminuzioni sui prezzi al consumo e, da febbraio 2022, la spinta speculativa ha preso a mordere con punte inflative superiori alle due cifre, la Thailandia, dopo un calo dei prezzi consistente e coerente col periodo di crisi, registra un’inflazione oltre il 5% che compensa la deflazione precedente e riporta benzina e gasolio ai valori dei primi mesi del 2020.
Gli altri dati economici, in Thailandia, parlano di una disoccupazione all’1,23%, all’inizio del 2023; Pil in crescita del 4,50%; gli interessi all’1,25% e un rapporto debito/Pil al 59,61%. La produttività è pari a 110,2 punti.
A livello turistico, di primo impatto, si nota però un aumento del divario tra lusso e povertà estrema. Sotto i grattacieli di Sukhumvit sono molti gli uomini e le donne (non solamente anziani) che chiedono l’elemosina o dormono per strada. Alla prostituzione da go-go bar si è aggiunta quella di strada, con donne e transessuali (in Thailandia il terzo sesso è riconosciuto socialmente ma non è altrettanto ben tollerata l’omosessualità) che affollano i soi (vicoli) ai lati delle vie della moda e del lusso di Bangkok.
In Italia, dopo la pandemia (che continua a cambiare nome, mentre i tele virologhi assomigliano sempre più a quel personaggio che gridava: “al lupo, al lupo!”) e con un nuovo Premier che promette di regalare centinaia di milioni di euro di armamenti all’Ucraina (mentre compaiono le mine anti-uomo Made in Italy anche in Donbass) e altrettanti all’industria farmaceutica per mitici vaccini (mentre aumenta la percentuale di coloro che muoiono di cancro), il primo dato negativo che salta all’occhio è la bassa produttività, ovvero la scarsa capacità di crescere. Secondo uno studio di Confindustria Udine (datato 2020) dal 2008 “il divario di crescita della produttività, intesa come valore del Pil per ora lavorata, tra l’Italia e i principali Paesi europei” si è ulteriormente ampliato e “in particolare, tra il 2010 e il 2019, la produttività italiana è aumentata solo di 1,2 punti percentuali, a fronte di un incremento di 8,6 punti in Germania e Francia e di 7,8 in Spagna e nell’area Euro”. Non sarà un caso se la spesa per ricerca e sviluppo (in rapporto al Pil) è di circa un punto percentuale in meno della media europea e sostenuta in massima parte dai privati; mentre nell’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società della Commissione europea, nel 2020, il nostro Paese risultava in 25a posizione su 28 Stati membri. Siamo infine penultimi in Europa per numero di laureati rispetto alla popolazione tra 30 e 34 anni, nonostante la riforma Berlinguer del 3+2 dovesse abbreviare il tempo di studio e aumentare il numero dei laureati (anche se non si è mai capito come, dato che trasformava lauree quadriennali in quinquennali e imponeva l’obbligo di frequenza). Come ben sanno i laureati di tutti quei corsi che sono proliferati (insieme alle cattedre) dopo la succitata riforma, l’Italia è fanalino di coda anche tra i Paesi che soffrono maggiormente per il disallineamento fra percorsi di studio e richieste del mercato del lavoro.
Per quanto riguarda i dati prettamente economici, l’inflazione è all’11,6% (mentre stipendi e pensioni non sono stati che parzialmente rivalutati, grazie a un Premier che in campagna elettorale prometteva una politica di recupero pieno del potere d’acquisto e, insediatosi, ha proseguito sulla strada del Pd e dei Governi tecnici fino a Mario Monti. Del resto anche la Bce pretende che, a fronte dell’aumento dei beni e dei servizi, stipendi e pensioni non siano adeguati per non aumentare la spirale inflativa, facendo ricadere la scelta scellerata della guerra contro la Russia sui cittadini dell’Unione. Il debito pubblico è a quota 361 miliardi (pari a un rapporto debito/Pil del 147% se le previsioni del 2022 saranno confermate), mentre il tasso di aumento del Pil nel 2023 dovrebbe discostarsi di poco dallo zero – con uno 0,4% attualmente previsto.
Ricordiamo che l’Italia nei prossimi mesi e anni dovrà restituire anche capitale e interessi di quel Piano di Resilienza (Pnrr) che, finora, ha incamerato e investito solo parzialmente. Oltre a dover rientrare a breve nei famosi parametri di bilancio del Patto di Stabilità e Crescita (sospeso, ma solo momentaneamente, a causa del Covid), secondo il quale il rapporto deficit/Pil non dovrebbe superare il 3%. Per Carlo Cottarelli e Giulio Gottardo (in uno studio di cui scriveremo più oltre) persino “in presenza di un’inflazione anche di poco maggiore del 2% annuo, per l’Italia questo obiettivo sarebbe difficilmente raggiungibile”. E ora viaggiamo oltre l’11%.
Sebbene alcuni giornalisti abbiano scritto che l’inflazione ridurrebbe il valore reale del debito pubblico, occorre spiegare come detto meccanismo sia un’arma a doppio taglio (come lo è stato il superbonus del 110% che ha causato un aumento speculativo nel costo dei materiali, il quale ha, a sua volta, ingenerato in parte l’inflazione sotto i nostri occhi).
Va osservato che i titoli indicizzati, pari al 10,9% del totale in circolazione (ossia circa 300 miliardi), registreranno un congruente aumento del tasso di interesse; mentre sull’89,1% a tasso fisso, l’inflazione comporterà un beneficio al rapporto debito/Pil di 35 miliardi. Le nuove emissioni, però (ogni anno circa 380 miliardi, senza ulteriori deficit) dovranno prevedere tassi di interesse più alti (che dovranno essere corrisposti, se a tasso fisso, anche nel caso l’inflazione nei prossimi anni diminuisca). Il maggior costo degli interessi potrebbe, alla fine, essere superiore alla riduzione del valore reale del rapporto debito/Pil di cui si scriveva. Ma non solo.
Come puntualizzavano Carlo Cottarelli e Giulio Gottardo (1) in tempi non sospetti, immaginando le conseguenze di uno shock inflativo ben inferiore a quello attuale: “Se il rialzo dell’inflazione spingesse la Bce a stringere la propria politica monetaria, l’impatto dell’inflazione sui conti pubblici potrebbe essere anche meno favorevole di quello sopra indicato. Questo per tre motivi. Primo, una stretta monetaria potrebbe comportare un aumento dei tassi di interesse reali a breve termine e forse, nel breve periodo, anche a lungo termine. Secondo, se la stretta comportasse una riduzione della detenzione di titoli di Stato da parte della Bce, lo spread sui titoli a lungo termine italiani potrebbe aumentare. Terzo, il minor livello della base monetaria in circolazione potrebbe comportare un calo dei profitti della banca centrale, con conseguente diminuzione dei trasferimenti da questa al governo”. Ora sappiamo che le previsioni più pessimistiche di Cottarelli e Gottardo si stanno avverando (e ci chiediamo a quali scopi reali miri la politica della Banca Centrale Europea). I tassi – come annunciato dalla Bce – sono aumentati e continueranno a farlo, ufficialmente per frenare l’inflazione. Inoltre, da marzo 2023, la Bce rimetterà sul mercato i titoli del debito pubblico dei vari Stati, acquistato durante la pandemia, aumentando di conseguenza l’offerta di investimento in un momento di crisi economica – in cui la domanda interna di titoli di Stato (di solito, bene rifugio delle famiglie italiane) potrebbe subire di per sé un calo. Per non parlare del congelamento degli investimenti in Europa di privati e soggetti pubblici stranieri, che potrebbe disincentivare ancora di più i possibili investitori. Ciliegina sulla torta, l’effetto del fiscal drag, ossia la maggiore Irpef versata dai contribuenti (anche a parità di potere di acquisto), che porterà a una riduzione dei consumi (e dell’Iva reale) e, ovviamente, dei possibili investimenti (nel succitato debito pubblico).
E chiudiamo con il fronte lavoro. A novembre 2022 il tasso di disoccupazione era stabile al 7,8% rispetto al mese precedente ma toccava il 23% tra i giovani, mentre diminuiva ulteriormente la quota dei dipendenti permanenti, dell’occupazione femminile e dei 35-49enni. Il tasso di occupazione era al 60,3% mentre quello di inattività saliva al 34,5%. Secondo i dati ufficiali già nel 2021 i nuovi contratti di lavoro a tempo determinato erano sette su dieci, mentre il salario medio annuale in Italia diminuiva ancora, invece di aumentare, seguendo il trend degli ultimi 30 anni (e scriviamo di anni in cui l’inflazione restava contenuta). La percentuale dei working poor, sempre nel 2021, era dell’11%; ossia, un decimo degli occupati, nonostante un reddito, erano a rischio povertà.
Come ne usciremo? Go-go bar e accampamenti urbani sotto i grattacieli di Garibaldi?
(1) Lo studio di Carlo Cottarelli e Giulio Gottardo:
https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-le-conseguenze-dell-inflazione-sul-debito-pubblico
venerdì, 3 marzo 2023
In copertina: Foto di Mediamodifier (gratuito da usare sotto la licenza Pixabay)