
Quando «la menzogna viene elevata a ordine del mondo»
di Simona Maria Frigerio
“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina…”(1). Quanti tra di noi hanno letto l’incipit di uno tra i capolavori di Kafka? Quanti hanno pensato che fosse assurdo quanto detto da Franz o Willem di fronte alle richieste di spiegazioni del malcapitato: “«Non siamo autorizzati a dirglielo. Vada in camera sua e aspetti. Il procedimento è appena avviato, e lei saprà tutto a tempo debito. Vado oltre il mio incarico parlandole così amichevolmente…»”?. E quanti di noi, di fronte a un’imputazione che ci pare assurda, ci siamo rincuorati dicendo a noi stessi: “«D’altra parte, la faccenda non può nemmeno avere molta importanza. Lo deduco dal fatto che sono accusato, ma non riesco a trovare la minima colpa di cui mi si possa accusare»”?
Eppure la legge, in Italia e di questi tempi, è lenta ma implacabile e, mentre la vita degli altri continua a scorrere, se la nostra resta impigliata nelle maglie della giustizia, si può pensare che: “Nel processo si deve avere almeno l’impressione che succeda qualcosa. Perciò, di tanto in tanto, si devono prendere svariati provvedimenti, l’imputato deve essere interrogato, si devono fare indagini, perquisizioni e così via. Bisogna, cioè, che il processo venga fatto continuamente circolare nell’ambito ristretto in cui è stato artificiosamente racchiuso”. E mentre coloro che amministrano questa giustizia “spesso non sanno da che parte voltarsi, chiusi forzatamente nella loro legge, sempre, giorno e notte, non hanno una giusta comprensione dei rapporti umani”, la vita di un individuo e della sua famiglia può finire stritolata dal meccanismo burocratico nel quale è stata compressa, finché ci si sente come quel Josef K. che “due signori fecero per prendere sottobraccio, ma K. disse: «Aspettiamo di essere in strada, non sono malato». Ma appena fuori del portone lo presero sottobraccio, in un modo come K. non aveva mai camminato con nessuno”.
Dal romanzo alla realtà
La vicenda di Mauro Gennari inizia nel lontano 2016 quando, dopo anni (come si diceva un tempo) di onorato servizio presso la sede Inps Monteverde, in cui svolgeva mansioni varie (lavorazioni, sportello, consulenza), è sanzionato con tre mesi di sospensione e poi, nel 2019, è addirittura licenziato – illegittimamente in quanto il regolamento di disciplina dell’Inps non prevederebbe che un lavoratore sia sanzionato per la stessa inadempienza da due provvedimenti disciplinari diversi. Tutto ciò a causa di 44 pratiche ritenute irregolari, spalmate su un arco temporale di ben undici anni. Le pratiche in causa sono rendite vitalizie – ma non si pensi a parlamentari e soliti noti. Qui si tratta di dipendenti che hanno versato contributi volontari, omessi dai loro datori di lavoro e ormai prescritti. Ovviamente non era Gennari a essere responsabile, dopo un controllo accurato dei dati, dell’erogazione di tali rendite, bensì i suoi superiori – quei dirigenti citati dalla Circolare n. 78/2019 che stabiliva come: “la verifica dei requisiti formali e sostanziali necessari per l’accoglimento delle domande di riscatto ex art. 13 legge n. 1338/1962 (rendite vitalizie)” spetti in via esclusiva ai responsabili del procedimento.
Gennari, però, finisce nelle maglie della giustizia nostrana e, come Josef K., si vede assurdamente contestare anche pratiche anteriori al 2010 (data in cui aveva iniziato a fare tali lavorazioni) e, poi, è denunciato per danni, dall’Inps, presso la Corte dei Conti e, penalmente, come se avesse ‘favorito’ degli utenti per ottenere, in cambio, probabili somme di denaro.
Nella marea di processi, se da un lato il PM di Roma ha chiesto l’archiviazione per il procedimento penale, e la Corte dei Conti ha ammesso le inefficienze organizzative e che i controlli spettassero ai responsabili di Gennari, l’Inps non ha fatto marcia indietro, anzi. La Cassazione ha dato torto pochi giorni fa al lavoratore, respingendo l’ennesimo e ultimo ricorso e, come scrive lo stesso Gennari: “non accorgendosi di un palese vizio di legittimità: il termine perentorio di 30 giorni per comunicarmi la contestazione disciplinare che l’inps, per 39 delle 44 pratiche oggetto del licenziamento (ma 6 delle 44 non le avevo lavorate io)” non aveva rispettato.
A questo punto la vicenda Gennari, dal punto di vista lavorativo, è giunta al capolinea. Nemmeno il vizio di legittimità è riuscito a scardinare quel legame che, possibilmente, esiste tra settori ed enti statali e che abbiamo visto in opera con le sentenze del Consiglio di Stato sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 e il parere della Corte Costituzionale in merito all’obbligo vaccinale. In bilico resta il ricorso in Cassazione circa la sentenza della Corte dei Conti che, come scrive Gennari, sebbene a luglio 2022 “abbia accertato in appello con sentenza definitiva per l’Inps e immediatamente esecutiva che le errate lavorazioni oggetto del mio licenziamento e i conseguenti danni patrimoniali non si sarebbero verificati se i miei superiori avessero fatto il loro dovere, condannando l’Inps e la sua dirigenza per inefficienza e disorganizzazione, ha comunque” imputato “una parte minore dei danni” al medesimo. Poca roba: circa 900mila euro. Una cifra che un disoccupato con due figli che ancora studiano e un mutuo sulla prima e unica abitazione non avrà certo difficoltà a pagare.
Ma come scriveva Kafka: coloro che amministrano questa giustizia “spesso non sanno da che parte voltarsi, chiusi forzatamente nella loro legge, sempre, giorno e notte, non hanno una giusta comprensione dei rapporti umani”.
(1) La versione open access de Il Processo è reperibile in rete: https://www.rodoni.ch/KAFKA/processo.html
(2) Per chi volesse ascoltare la vicenda Gennari dalla viva voce del protagonista:
venerdì, 3 marzo 2023
In copertina: La morte di Socrate, foto di Gordon Johnson da Pixabay (gratuita da usare sotto la licenza Pixabay)