Nahel: l’ennesimo ragazzo ucciso da un poliziotto
di Luciano Uggè (e Simona M. Frigerio)
Era il 23 febbraio 1986 quando un poliziotto fuori servizio uccideva Luca Rossi, un giovane militante di Democrazia Proletaria che stava solo correndo per prendere il filobus. Lo segnalo per primo perché era un amico (1). Ma quanti sono stati gli italiani uccisi dal 1948 in poi, dalle forze dell’ordine della nostra Repubblica democratica che dovrebbe garantire il dissenso, le manifestazioni, la libertà di parola, opinione e critica? Viene alla mente Carlo Giuliani, al G8 di Genova nel 2001 (anche allora ero presente), ma leggendo tra le pagine della storia emergono altri nomi, anche senza volto, e tante battaglie civili – poche vinte, molte perse.
Un lungo elenco (2) che parte dall’8 febbraio 1948, quando a Cerignola, nel corso di una manifestazione di militanti di sinistra, la polizia spara e ne uccide cinque. Quelli sono gli anni in cui, al sud, sono soprattutto i braccianti agricoli a ribellarsi, mentre al nord emergono i primi moti operai – il 9 gennaio 1950, a Modena, sono uccisi Angelo Appiani, Renzo Bersani, Arturo Chiappelli, Ennio Garagnani, Arturo Malagoli e Roberto Rovatti, tutti lavoratori del complesso siderurgico Orsi. Stragi e morti isolate si succedono, alcune eclatanti e altre, più spesso, occultate e presto dimenticate (tranne dalle famiglie). Poliziotti e carabinieri difficilmente sono processati, quasi mai condannati e, nel caso, con pene lievi (qualche mese o il trasferimento in altra sede). Negli anni 70 anche gli studenti muoiono, come Roberto Franceschi, poco più che ventenne, o Pier Francesco Lorusso, appena 25enne. Ma la lista è lunga e non vogliamo tediarvi: ci bruciano ancora gli occhi per i lacrimogeni di Napoli (3) e Genova (4), nel 2001, quando coloro che credevano in un altro mondo ancora possibile furono silenziati dal potere (prima, dal cosiddetto centro-sinistra, che era al Governo con Giuliano Amato; o poi dal centro-destra, con il Governo Berlusconi/Fini. Il fine, per entrambi, era lo stesso: stroncare il movimento no global).
Questo solo per capire come Nahel, in questi giorni, nella Francia per giorni in fiamme e sempre più militarizzata, è solamente l’ultimo ragazzo ucciso dalla violenza del potere: diciassettenne, a Nanterre, poco fuori Parigi, nella mattinata del 27 giugno, vive le sue ultime ore mentre le rivolte si succedono. Rivolte attribuite – da politica e stampa mainstream – alla ‘rabbia’ delle banlieue. Una spiegazione che ci pare decisamente riduttiva. Il film L’Odio (La Haine), scritto e diretto da Mathieu Kassovitz, è del 1995 e la realtà ha ancora una volta copiato la trama di un capolavoro cinematografico (che, a sua volta, prendeva spunto dall’uccisione di un ragazzo della periferia parigina da parte della polizia). Un cortocircuito narrativo che dovrebbe imporci una semplice domanda: perché quell’odio, quella rabbia sono esplosi nuovamente dopo quasi trent’anni? Non è cambiato nulla da allora? Dove finiscono tutti quei migranti che le nostre ‘anime belle’ vogliono a tutti i costi sradicare dai loro Paesi per consegnarli alla clandestinità e alla miseria? Dove sono ‘rintanati’ tutti quei francesi che Macron credeva di aver zittito per sempre imponendo la sua riforma delle pensioni?
Dal caso singolo alla violenza come sistema di potere
Nahel è il casus belli ma proviamo ad andare oltre e a fare qualche ragionamento. Come può uno Stato che ne arma un altro, ossia la Francia di Macron che dà armi all’Ucraina perché la stessa continui a uccidere altri ucraini (russofili o russofoni che dir si voglia), pretendere di ergersi a garante di pace, giustizia e rispetto dei diritti sociali e delle minoranze? È il medesimo discorso che molti di noi hanno usato per combattere la pena di morte. Uno Stato che condanna l’omicidio non può commetterlo a sua volta, non può ideologicamente giustificarlo o giustificare la vendetta – pubblica invece che privata.
Ma la violenza del potere francese in questi anni si è dispiegata anche in Libia, ad esempio, dove i Mirage non hanno esitato a bombardare quel Paese – ovviamente a scopo ‘umanitario’, ossia in difesa dei rivoltosi. Se esistesse un peso e una misura, chi oggi chiederebbe una no-fly zone sulla Francia? E sempre se esistesse un peso e una misura, tutti quei quotidiani e telegiornali che hanno gridato allo scandalo per la repressione dei moti iraniani, non dovrebbero alzare la propria voce oggi contro chi sta tentando di schiacciare una rivolta usando semplicemente una dose di forza maggiore e una campagna mediatica che offusca le ragioni? In questo mondo dominato dalle immagini, vedere le forze dell’ordine francesi col volto coperto e le armi puntate ad altezza uomo contro altri francesi è simbolo di democrazia?
Quando Jean-Luc Mélenchon chiede che i rivoltosi rispettino “le scuole, le biblioteche, i ginnasi, tutto ciò che è di tutti, che è nostro bene comune”, la domanda che sorge spontanea è: perché dovrebbero attaccarli? L’istruzione rappresenta ancora per i giovani francesi un mezzo di conoscenza o riscatto da difendere? Oppure le scuole sono solo un parcheggio, luoghi spesso di degrado, che non offrono vere opportunità di affrancamento da una condizione socio-economica di subalternità che si sa si perpetuerà dai genitori ai figli? E soprattutto, chi ricorda i tempi in cui si rivendicava una scuola che non fosse più espressione dell’egemonia borghese, che non servisse solamente a indottrinare gli studenti o a renderli funzionali al sistema capitalistico?
Anche alcuni calciatori, come la stella del Paris Saint Germain, Kylian Mbappé, hanno chiesto la fine della violenza. Violenza che finché è circoscritta agli stadi può andare bene anche al potere, dato che lo ‘sfogo’ del ‘tifoso’ rientra in ciò che il potere può gestire e ‘concedere’. Ovviamente si sottoscrive la richiesta, ma il passaggio successivo non dovrebbe essere chiedersi il perché? Cosa vogliono questi giovani (e meno giovani, se solo un 30% degli arrestati è minorenne)? Semplicemente tornarsene a casa con un cellulare o un televisore o un chilo di penne lisce in più?
Perché quando è interessato da moti violenti un Paese europeo si parla di facinorosi, di rabbia, di saccheggi; mentre se accade lo stesso in uno Stato che noi occidentali definiamo ‘dittatoriale’ d’un tratto diamo peso alle motivazioni dei rivoltosi? Laddove voti meno del 50% della popolazione e chi è eletto ha ricevuto la maggioranza dei voti di una fetta minoritaria di popolazione, si può ancora parlare di democrazia? E anche laddove vada a votare la maggioranza della popolazione ma poi i politici disattendano le promesse elettorali, si può ancora parlare di democrazia? Pensiamo al Premier Meloni: prima delle elezioni era russofila mentre oggi è filo-statunitense, prima era critica nei confronti delle misure del Governo Conte e di quello Draghi sulla pandemia e, poi, pare dimentica di quella commissione d’inchiesta e di quel nuovo corso che per molti sono state le ragioni di un voto – soprattutto di protesta.
Dalla violenza alla proposta?
Andrea Zhok in un acuto editoriale per L’Antidiplomatico scrive: “Volevano ottenere bestie da soma, hanno ottenuto – e otterranno sempre di più – bestie da preda”. Intendendo che il potere ha azzerato la pratica e la teoria della militanza, il pensiero critico, gli strumenti e i mezzi per convogliare il dissenso in forme democratiche di cambiamento, omologato i mass media in un assordante pensiero unico e relegato l’insofferenza in forme di violenza controllabili (come quelle negli stadi, di cui abbiamo scritto anche noi). Tutto vero. Ma siamo davvero certi che questi giovani e meno giovani non abbiamo sogni, ideali e proposte?
E soprattutto non è questo un rimprovero un po’ da ‘accademici’? Dove sono gli intellettuali, i Marcuse e i Pasolini – pro o contro – che potrebbero innescare cortocircuiti anche di pensiero? Dove sono i giornalisti? Dove le forze politiche extraparlamentari? Dove i sindacati e coloro che dovrebbero avere gli strumenti, i mezzi e la formazione per dare a quella rabbia la forza di un pensiero coeso? E soprattutto, siamo sicuri che, nel momento che irreggimentassimo la ‘rabbia’ in una proposta, la stessa non sarebbe liquidata come utopistica o trasformata in un’arma che lo stesso potere capitalistico finirebbe per utilizzare contro di noi – come accaduto con la salute pubblica in epoca pandemica, o la necessità di ‘difendere’ l’aggredito dall’aggressore (per il Donbass, ma non per lo Stato di Palestina) e, ancora, o peggio, il ‘cambiamento climatico’ con la vendita di batterie al litio, la de-industrializzazione d’Europa, l’impoverimento estremo di sempre più larghe fasce di popolazione e la multa se fumi una sigaretta alla fermata del tram (perché a questi livelli di schizofrenia è arrivato il potere: al punto che una tal Greta va a stringere la mano a un tal Volodymyr che da mesi bombarda una centrale nucleare… o si diventa funzionali o si è cancellati dalla narrazione e la summenzionata, dopo l’arresto per le manifestazioni contro le centrali a carbone, pare avere recepito il messaggio. E i suoi esegeti dove andranno? A Kyiv a stringere mani o in trincea per fermare la guerra?).
Se sindacati, studenti e lavoratori si arrendono, cosa rimane?
Questi scontri, qualunque sia il loro esito, non va dimenticato che seguono la lunga ed estenuante lotta dei sindacati e dei lavoratori francesi (e di Jean-Luc Mélenchon, teniamo presente, colui che sarebbe potuto essere eletto Presidente se le cosiddette sinistre non si fossero, come sempre, divise) contro la Riforma delle pensioni voluta e imposta da Emmanuel Macron.
Una lotta con enormi manifestazioni popolari, centinaia di ore di sciopero, feriti e arrestati, protrattasi per mesi: una presa di coscienza di una massa critica che non voleva e non vuole una ulteriore contrazione dei propri diritti acquisiti, utile a distogliere fondi dalla società civile in favore di armi e guerre volute da Paesi stranieri. François Hollande, ex Presidente e già segretario del Partito socialista francese è corresponsabile dell’escalation in Donbass, come Angela Merkel: l’Accordo di Minsk era un’opzione praticabile e da praticare solamente per il Presidente Putin. Questo è ormai un dato acclarato. Di fronte al tradimento europeo nei confronti della Russia, al riarmo dell’Ucraina contro il suo stesso popolo (filorusso o russofilo), a una guerra che avrebbe potuto essere fermata un anno fa con gli accordi di Ankara, perché i francesi dovrebbero rinunciare al proprio benessere sociale per foraggiare un conflitto che sta solamente devastando territori, deindustrializzando la Ue e uccidendo decine di migliaia di persone (civili o militari che siano)?
Ma, soprattutto, occorre porsi un’altra domanda. Quando il voto è disatteso, quando i politici impongono il proprio volere senza più rispondere al proprio elettorato ma ai diktat di alleanze sovranazionali, quando Commissioni nemmeno elette dettano la nostra esistenza e quando manifestare, protestare, opporsi democraticamente non serve a niente, come si può dire che si vive in una democrazia e non in una plutocrazia – non migliore di qualsiasi teocrazia o dittatura che noi, occidentali, pensiamo di essere in diritto di ‘combattere’ in ogni angolo del globo?
(1) La storia di Luca Rossi:
(2) L’elenco delle persone uccise, nel nostro Paese, dalle forze dell’ordine dal 1948 in avanti: https://www.carlogiuliani.it/archives/per-non-dimenticarli/1599
(3) Ricordiamo cosa accadde a Napoli nel 2001: https://www.osservatoriorepressione.info/napoli-17-marzo-2001-no-global-forum/
(4) Genova 2001: https://www.inthenet.eu/2020/07/17/noi-credevamo/ e https://www.inthenet.eu/2022/07/20/noi-credevamo-seconda-parte/
venerdì, 7 luglio 2023
In copertina: Parigi, Arco di trionfo (foto di Joe da Pixabay)