
E gli europei novelli sorci?
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Quando si vive per qualche mese in oriente, magari ritornandoci anno dopo anno, si verifica coi propri occhi l’espansione economica imponente di intere regioni. Ogni metro quadrato di suolo è letteralmente eroso dal cemento e dal cosiddetto progresso che si traduce in chilometri di asfalto, una selva sempre più fitta di grattacieli, la moltiplicazione di centri commerciali e autovetture, l’espansione industriale, la meccanizzazione dell’agricoltura, la velocizzazione della vita e dei trasporti oltre che delle telecomunicazioni. In quest’ultimo settore, basti pensare che la Thailandia – nei soli due anni pandemici – è passata da una rete internet non sempre presente e, nel caso, non dappertutto efficiente, al 5G grazie anche al supporto cinese. Un altro esempio facilmente verificabile anche dal viaggiatore meno accorto è il moltiplicarsi delle corsie della superstrada che da Bangkok si dirige verso sud. Non solamente si è passati da una o due corsie per senso di marcia a tre più due di emergenza ma, in alcune zone, si sta convertendo in corsia persino lo spartitraffico precedentemente piantumato. Ai lati dello stradone sempre più trafficato ogni spazio verde (a parte le saline) è stato convertito in abitato (dalla baracca di lamiera alla casa a due piani in legno fino alle palazzine in cemento armato a tre o quattro piani), in commerciale, industriale, tempio buddhista o stazione di servizio. Pochi i campi ancora utilizzati, soprattutto a bananeti, e molte le ʻfabbrichette’ che crescono come funghi, simili a quelle del nostro nord-est solo di qualche lustro fa con la baracca annessa ormai convertita a villetta padronale. Uno sviluppo impetuoso che, visti gli spazi ancora disponibili, potrà continuare forse per una decina d’anni; uno sviluppo che implacabilmente e senza remore erode i suoli, trasforma i corsi d’acqua in cloache a cielo aperto e sta distruggendo inesorabilmente la fragile barriera corallina e l’ecosistema delle coste thailandesi. Qui capitale e plusvalore sono in gran parte in mano agli stessi thailandesi, cui si affiancano gli investimenti cinesi (che, nei primi 9 mesi del 2023, ammontavano al 24% del totale degli investimenti stranieri) e, grazie anche a un contenimento dell’inflazione (anzi, siamo nuovamente in fase deflattiva dopo il picco post-Covid), la ricchezza prodotta dalla crescita economica è ripartita in parte anche con i ceti medi, come si nota dal parco automobilistico che, grazie agli incentivi statali degli scorsi anni, è stato totalmente rinnovato (passando da auto a benzina vecchie di oltre 20 anni a suv e berline fiammanti, ma sempre a benzina e, in parte, a benzina ed etanolo).
In occidente, dove il capitalismo finanziario ha ormai raggiunto, grazie o a causa della globalizzazione voluta e imposta dallo stesso, il suo massimo livello di sfruttamento (di risorse e manodopera a basso costo delle regioni periferiche dell’ʻimpero’) e di espansione (visto che le regioni ai margini sempre più si affrancano dalla dipendenza finanziaria e tecnologica occidentali, trasformandosi in centri che possono controllare e incamerare i profitti per investimenti in loco), la questione di come far ripartire un nuovo ciclo espansivo è diventata di sopravvivenza. Soprattutto in una situazione in cui il capitalismo, trasformandosi da industriale a finanziario, ha perso interesse nell’accrescimento fordista della produttività volto anche al miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori che, in questo modo, si trasformavano essi stessi in consumatori dei propri prodotti. La scelta del grande capitale di investire sulla speculazione finanziaria, delocalizzando le attività produttive ed estrattive nei Paesi meno economicamente sviluppati e contando, nel contempo, su una certa capacità di acquisto delle classi medie dei Paesi più economicamente sviluppati convertite al terziario o terziario avanzato (e disgiungendo quindi forza lavoro e massa consumistica), ha generato extraprofitti speculativi che non hanno avuto ricadute positive a livello economico e sociale ma alle quali, oggi, il capitalismo occidentale non sa rinunciare. La miopia di non aver continuato a investire in ricerca e sviluppo, contando solo su sempre nuove masse di lavoratori da sfruttare o materie prime da depredare; e il razzismo intrinseco nel non voler considerare le possibilità di crescita – culturale e tecnologica – dei Paesi meno sviluppati economicamente hanno generato l’attuale stagflazione che, unita alla scellerata stupidità europea di aver scelto di votarsi al suicidio politico ed economico, alleandosi con gli States invece che con la Russia, può dare una chance ai think tank statunitensi sacrificando inevitabilmente la pedina Europa.
In effetti, al momento, le uniche due vie percorribili dal capitale finanziario transnazionale soprattutto di matrice statunitense sono costituite o dall’implosione dei Brics con ricadute ʻemotive’ sui Paesi del Sud del mondo tali da ʻrimetterli’ in riga; o dall’esplosione dell’Europa con una guerra e un conseguente impoverimento tale da ricrearsi le condizioni, su un territorio abbastanza vasto, popoloso e tecnologicamente/culturalmente maturo, per un nuovo Piano Marshall e un nuovo ʻboom’ economico. Il che, tradotto, significherebbe una ricostruzione dell’Europa con capitali statunitensi che potrebbero nuovamente contare su una vasta area ancor più egemonizzabile politicamente e sfruttabile/spolpabile economicamente.
Molte le variabili al momento in gioco. Vediamone alcune
I tentativi di allargare il conflitto israeliano contro i civili palestinesi all’intero mondo arabo, ad esempio, può avere lo scopo di raggelare i rapporti tra Iran e Arabia Saudita, finalmente riappacificatisi grazie alla mediazione cinese ed economicamente alleate nei Brics dal 1° gennaio di quest’anno. Se, infatti, l’Arabia Saudita fosse finita nel tranello di appoggiare la missione statunitense nel Mar Rosso contro gli yemeniti, sicuramente la situazione con Teheran sarebbe diventata tesa. La neutralità di Riyadh, al contrario, lascia mano libera alle operazioni di resistenza filo-palestinesi yemenite e, nel contempo, assicura la tenuta (almeno momentanea) dei Brics.
Nell’Indo-pacifico è la pedina Taiwan quella che rischia di innescare una conflagrazione che, se sul piano militare non avrebbe che una possibile conclusione, viste le potenze in campo – anche solo a livello di numeri – sul piano economico potrebbe nel breve periodo distogliere fondi ed energie cinesi da attività produttive per convertirli in spese militari. E però, data la scelta del Presidente Xi Jinping – messa in atto negli ultimi 8 anni – di accrescere tali spese fino a ʻvantare’ il secondo budget militare più ingente al mondo, anche questa mossa alla fine potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua soprattutto se i giapponesi non avessero voglia di farsi trascinare in un conflitto, non solamente diplomatico, per le isole Curili e la Corea del Sud preferisse non giocarsi l’attuale stabilità per mostrare i muscoli contro una potenza nucleare, com’è la Corea del Nord. Senza tenere conto che molti coreani, anche a Sud, non accettano quella divisione imposta dalle strategie geo-politiche statunitensi e continuano a sentirsi coreani ʻpunto’ (il che potrebbe portarli a osteggiare apertamente una mossa bellicista).
La miopia europea
Sorvolando su tutto il resto, per questioni di spazio, tempo e opportunità (dato che il presente è un editoriale e non un trattato), vediamo se e come l’Europa potrebbe finire per sposare la seconda opzione, sacrificandosi sull’altare del capitalismo transnazionale statunitense.
Notiamo, in primis, come sia l’Europa a essersi impegnata in un sostegno militare miliardario nei confronti dell’Ucraina e di come lo stesso significherà non solamente una ulteriore perdita di centinaia di migliaia di vite umane ma anche un aumento considerevole dell’inquinamento dei suoli, delle acque e dell’aria europei. Inquinamento che si protrarrà per decenni, rendendo di fatto terreni coltivabili e animali da allevamento non sicuri per l’alimentazione umana. Lontani paiono i tempi in cui all’Europa pareva troppo finanziare un’Ucraina ancora territorialmente integra e pacifica con 15 miliardi di Euro, mentre adesso progetta di spenderne 50 solo per sostenere la sua distruzione.
Altro fatto inquietante è la scelta di incentivare gli agricoltori e gli allevatori europei all’abbandono dei terreni e all’abbattimento dei capi per diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera (si veda al riguardo anche la Nature Restoration Law). Aldilà del fatto che tale scelta è decisamente ridicola di fronte alla crescita economica impetuosa dell’Oriente (che probabilmente ride osservandoci dall’alto dei suoi grattacieli e delle sue ciminiere), la domanda che sorge spontanea è perché l’Europa, già priva (o quasi) di risorse minerarie ed energetiche, vuole rendersi ancora più dipendente anche dalle importazioni agricole e alimentari? Oppure qualcuno crede davvero possibile costringerci a cibarci di pane fatto con la polvere di grillo? Oppure, ancora, dovremo essere ridotti a mangiare (come diceva mia nonna durante la guerra) ʻpane e pettini’? Lontani i tempi in cui l’Europa si batteva contro i semi transgenici che consegnavano gli agricoltori alla dipendenza dalle multinazionali dell’agroalimentare per i semi e per un uso sempre più massiccio di erbicidi e pesticidi (la recente scelta della UE di continuare a permettere l’uso del glisofato – quando, ad esempio, in US si vendono già i prodotti senza… – è solo l’ultimo segnale in questo senso, 1).
Per decenni abbiamo visto statunitensi ed europei portare ʻpace e libertà’ a suon di bombe ʻintelligenti’ e, ogni volta, promettere alle aziende i guadagni della ricostruzione e agli occidentali le ricchezze minerarie dei Paesi nuovamente in balia del neocolonialismo ammantato di retorica democratica statunitense. A parte l’occupazione illecita di pozzi petroliferi, però, soprattutto se non esclusivamente attuata dagli yankee, non abbiamo visto Europa e States pascersi dell’apertura di nuovi mercati del lavoro o zone di produzione franche in Iraq o Serbia, Libia o Afghanistan. Noi lasciamo solo morte e macerie dietro di noi. Ormai, di fronte a Gaza, nessuno potrà più negarlo.
Quindi, per i think tank solo una destabilizzazione stabile di un’area ampia come l’Europa potrebbe permettere margini di guadagno tali da compensare, almeno nel breve periodo, la fine dell’exploitation da globalizzazione. Di fronte, del resto, all’ignavia della popolazione europea negli ultimi 30 anni e alla pusillanimità cieca di chi ci governa il gioco non sarebbe difficile. Certo, magari quando i figli dell’opulenta e bolsa Europa fossero davvero chiamati al fronte, qualche protesta si vedrebbe. Ma la furbizia, da Cesare a Biden, potrebbe essere il divide et impera. Ha funzionato con le pensioni, in Italia, con il welfare in tutta Europa, partendo dalla Grecia, con gli Accordi di Minsk in Ucraina… perché non dovrebbe funzionare ancora? Prima coinvolgendoci azzerando le nostre riserve di armamenti, passando da supporto difensivo a offensivo nella guerra non dichiarata contro la Russia, poi facendo collassare i nostri approvvigionamenti energetici e rendendoci dipendenti dal gas di scisto statunitense. Quindi, costringendoci a de-industrializzare (edulcorando l’amara pillola alle masse con la scusa dell’ambiente) e drenando tutte le nostre risorse economiche per continuare a finanziare il massacro. E finalmente portando, prima, i nostri professionisti e, poi, i volontari e infine obbligandoci alla precettazione sì da gettare un’intera generazione sul fronte ucraino a morire per la ʻpace’. E così se, all’inizio, dovevamo sacrificare solo il condizionatore, alla fine potremmo sacrificare anche i primogeniti.
(1) https://www.inthenet.eu/2023/12/01/la-politica-green-europea-alla-prova-dei-fatti/
venerdì, 2 febbraio 2024
In copertina: Bangkok, foto di Q K da Pixabay