
I filo-statunitensi perdono la maggioranza in Parlamento
di Luciano Uggè
Sempre a bocce ferme, per quanto possibile, come piace a noi di questo Settimanale, proviamo a capire meglio la situazione di Formosa.
A Taiwan, le elezioni del 13 gennaio 2024 che avrebbero dovuto sancire una netta spaccatura con la Cina hanno, al contrario, dato la vittoria presidenziale al candidato del DPP (il partito filo-statunitense già al Governo), Lai Ching-te, con il 40,35% delle preferenze, ma hanno anche decretato la maggioranza relativa a livello parlamentare del Kuomintang (filo-cinese), e la crescita del Partito Popolare di Taiwan (che finora non ha mai sostenuto posizioni secessioniste) – il quale sarà il vero ago della bilancia nella futura politica taiwanese. In breve, il DPP ha ottenuto 51 seggi (perdendone 10 rispetto alle ultime elezioni politiche), il Kuomintang 52 (conquistandone 14) e il TPP 8 (ossia 3 in più). Di conseguenza, Presidente e Parlamento dovranno muoversi verso posizioni dialettiche reciproche per poter governare.
Il 20 maggio vi sarà il passaggio di poteri presidenziali ma forse a Washington hanno già capito che qualcosa è cambiato vista la dichiarazione immediata di Biden che gli States continueranno a sostenere la politica di “una sola Cina”. Anche a Taiwan, sempre più invischiata in spese militari e con un’economia che comincia ad arrancare qualcuno deve essersi accorto che il principale partner commerciale del Paese resta la Cina, con un volume di scambi stimato intorno al 22, 6% del totale. E non sarà, quindi, un caso che il neo-eletto Lai Ching-te ha immediatamente dichiarato di voler mantenere la pace, la stabilità e lo status quo nello Stretto di Taiwan.
Tenendo conto del regime quasi monopolistico a livello di produzione e assemblaggio dei semiconduttori di Taiwan e della ricchezza di terre rare che vanta la Cina, oltre che del China–Taiwan Free Trade Agreement (FTA), firmato dagli stessi nel 2010 e consistente in un accordo di cooperazione economica che ha dato il là anche ai successivi Cross-Straits Bilateral Investment Protection e Promotion Agreement (BIPPA), nel 2012, e al Cross-Straits Trade in Services Agreement (TSA), nel 2013, si capirà come buone relazioni tra terraferma e isola possano solamente giovare a entrambe – Cina e Taiwan. Mentre una guerra nell’area porterebbe a una crisi della supply chain tecnologica che potrebbe essere dannosa anche per le economie statunitense ed europea.
Taiwan: recessione e segnali di povertà
Quello che, però, i nostri media non scrivono è che l’economia dell’isola ha iniziato a rallentare fin dalla primavera del 2022. Una ridotta domanda estera dei suoi semiconduttori (soprattutto a causa del lockdown imposto a Shanghai), che sono il suo volano industriale, e che pesavano sulla bilancia commerciale per il 39% delle esportazioni totali del 2022; l’aumento dell’inflazione; e la stretta monetaria (anche a livello internazionale) hanno portato ai primi segnali di crisi, a cui è seguita la caduta libera delle esportazioni, nel 2023 – soprattutto a causa della contrazione delle vendite in Cina e a Hong Kong (che assorbivano il 42% dell’export taiwanese l’anno precedente, 1).
Di conseguenza il 2023 ha visto una Taiwan che, mentre sperperava risorse in armamenti, doveva affrontare anche la recessione con un -2,9% su base annua (relativamente a Q1). Gli investimenti nello stesso periodo diminuivano dello 0,8% per la prima volta dal 2017 e, infine, per ridurre l’inflazione, la Banca centrale alzava i tassi di interesse (a inizio 2022).
Dall’altro lato, mentre l’1% dei percettori di reddito incamera il 10% del reddito nazionale (ma negli States la percentuale è addirittura doppia, ossia il 22,7%), il salario base nell’isola, nonostante aumenti ogni anno nominalmente, in realtà da due anni sta diminuendo in quanto eroso dall’inflazione (2).
Dato l’alto costo della vita, soprattutto a Taipei, il 50% degli assunti a Taiwan – avendo un salario inferiore a NT$42,000 (che è considerato il salario medio ed è pari a 1.220 euro circa) – si può dire che appartengano a nuclei familiari in stato di povertà o, comunque, a basso reddito.
Taiwan fornisce, inoltre, pochi servizi di welfare e, per garantire gli stessi, si basa sui dati del nucleo familiare che possono essere altamente fuorvianti. Ad esempio, tutte le persone tra 16 e 65 anni sono considerate lavoratori attivi e i “disoccupati sono conteggiati come se ricevessero un salario base, anche quando ciò non avviene. Questo guadagno ‘fantasma’ aumenta il totale del reddito familiare e può far perdere al nucleo stesso il diritto a ricevere aiuti finanziari” (2).
Ma non solo. I programmi di assistenza sociale sono calibrati “su nuclei familiari tradizionali” includendo anche le entrate di tutti i parenti che “vivono sotto lo stesso tetto (2)” – cosa non più anodina della richiesta delle università italiane di includere nel reddito dello studente, valido per il computo delle tasse universitarie, quello di tutti i suoi conviventi, anche in caso siano semplici coinquilini o partner, che legalmente non hanno alcun obbligo mutualistico.
Infine, l’aiuto finanziario da parte dello Stato non può essere richiesto da persone che siano in possesso di abitazioni con un valore superiore ai NT$9.06 milioni, ma questa cifra (pari a 260mila euro circa) è irragionevole visti i prezzi degli appartamenti a Taiwan.
A questo punto si capisce perché, già prima della crisi, nel 2021, circa l’1,3% della popolazione (ossia 300 mila individui su un totale di meno di 23 milioni) fosse al di sotto della soglia di povertà. Non solamente in Italia, e in Europa, occorrerebbe pensare di più alla popolazione e di meno a compiacere lo Zio Sam!
(1) Per approfondire gli indici macroeconomici: https://economic-research.bnpparibas.com/html/en-US/Taiwan-Economic-strategic-strength-7/11/2023,48780
(2) Una analisi degli indici di povertà di Taiwan: https://www.thinkchina.sg/tackling-growing-income-gap-taiwan
venerdì, 2 febbraio 2024
In copertina: Taipei, foto di Shutterbean da Pixabay