Leggende metropolitane
di Noemi Neri (traducción en castellano a pie de página)
È notte quando vedo un uomo aggirarsi in mezzo alle frasche chiamando un gatto rosso e lanciandogli qualcosa che non riesco a decifrare. Conosco questa colonia felina perché gli porto da mangiare e voglio assicurarmi che non faccia loro del male, così aspetto. Resto ferma a guardarlo senza timore che mi veda. Quando viene verso la luce gli domando se gli stesse dando da mangiare: «Vengo qui tutte le notti. Gli porto dei biscotti che faccio io con le noci e dei croccantini». È di origine turca, ha 11 gatti, 2 cavalli e 2 cani. Anche se è tardi, iniziamo a parlare della colonia felina, l’uomo non è pulito, indossa i pantaloni di una tuta e un maglioncino.
A volte, quando cammino in mezzo a una piazza piena di persone penso a cosa mi direbbero se potessi parlare con ognuno di loro. Se mi lasciassero entrare nel loro mondo per scambiarci la vita per qualche minuto. Non importa se ciò che dicono sia vero o falso, io resto sempre ad ascoltare qualcuno che ha una storia da raccontare.
J. mi dice che la prossima settimana deve consegnarsi alla polizia perché condannato a tre anni di carcere: «Devo andare a can». Io presuppongo intenda Cannes e domando come mai debba andare in un carcere francese se ci troviamo in Spagna. J. è stato in Italia: vuole usare qualche parola e ricorda can, pensando significhi carcere. Più avanti, durante la conversazione durata circa tre ore, ripensa a quella parola, mi chiede come si chiamino le cartine per farsi le sigarette e lì capisco che la parola che conosce è ‘canne’. Ma come si vende la marijuana? È lui che mi spiega come gestisce il giro. Supponiamo che una famiglia viva in una casa con più stanze e che tra queste, due non le utilizzi. L’accordo con lo spacciatore consiste nell’adibire le stanze a coltivazioni di marijuana. Lui porta i semi, cura le piante, le pota e le vende sul mercato. I proventi del primo raccolto sono completamente suoi per ripagarsi l’investimento iniziale; dal secondo in poi, metà per uno. La famiglia può guadagnare facilmente diecimila euro al mese. Con eleganza sembra tastare il terreno: «Immagino che una persona come te non faccia queste cose». E ha ragione, tra l’altro io nemmeno fumo.
La nostra conversazione verte sulle gesta incredibili del mio interlocutore, il fondo di verità è nascosto lì, da qualche parte in mezzo alle parole, il resto è un romanzo che lo rende la versione migliore di se stesso, seppur come protagonista della malavita. È già stato in carcere, dove ci sono tre attività giornaliere obbligatorie. Sveglia alle otto, un paio di attività fino all’una, pranzo e, alle quattro, l’ultima. Alle sette sono chiamati per la cena e la mattina seguente devono farsi trovare in piedi e vestiti per il controllo di routine. Ovvio che in carcere si spaccia: il capitalismo viene riprodotto nella prigione come una sorta di Bignami delle dinamiche societarie. Ogni detenuto ha diritto a due vis-à-vis al mese, più uno che può essere concesso extra. Quando il visitatore e il visitato si trovano soli nella stanza che permette loro di avere un po’ di intimità, il visitante tira fuori la droga dalle proprie parti intime, questa viene messa in un preservativo e introdotta nell’ano del detenuto che poi la venderà ai suoi compagni. Sono dinamiche che conosco grazie ai film, ma adesso quest’uomo me le sta spiegando come fosse la routine più naturale del mondo.
Su YouTube mi mostra un video della Guardia Civil che parla di un’operazione in cui hanno sequestrato oltre 4 chilogrammi di droga per un valore di quasi 250 milioni di euro – mi dice che lo riguarda, che si tratta di una delle volte in cui lo hanno beccato. J. ritiene di non essere un incosciente, in fondo lui quello che ha guadagnato lo ha investito, ha comprato case nelle principali città spagnole, ha molte auto di lusso, con una Lamborghini ha fatto Malaga-Marbella in quindici minuti.
J. continua a sproloquiare… possiede vestiti dei maggiori brand di moda, ma non stasera. Stasera sta dando da mangiare ai gatti di strada contando i giorni che gli restano prima di doversi consegnare. Mi mostra dove nasconde la droga: dentro il fiore giallo di una palma e dietro una panchina. Mi dà una ricetta per cucinare il pesce sotto sale: a sua madre piace come cucina. Questi dettagli lo riportano momentaneamente alla normalità prima di tornare alle sparatorie di Medellín, in Colombia. Mi mostra le cicatrici che gli hanno lasciato le pallottole, una lo ha preso in testa di sfuggita, non lo ha ucciso perché era un proiettile calibro 22 – uno schifo a suo parere. Gli spiego che non ho idea di quanto possa essere la grandezza di un calibro 22 e mi mostra un mozzicone di sigaretta per farmi capire.
Poi si distrae e torna a parlare di cibo: mi consiglia un buon kebabbaro, ma repentinamente è con la mente in Qatar, dove sua nonna ha una libreria più alta del palazzo alle nostre spalle. Lì ha trovato un libro fatto di pelle umana e un altro di stregoneria, di cui esistono solo tre esemplari al mondo che appartengono a re marocchini. Io lo ascolto: sono spettatrice della sua fantasia mentre si mischia con la realtà. Non saprò mai quanto ci sia di vero in ciò che mi sta narrando, ma questa è la sua storia, e devo riconoscergli una certa capacità nel raccontarsi.
È stato suo padre, (ovviamente) il più grande narco-trafficante al mondo, a iniziarlo al mestiere di spacciatore. J. ha due amici napoletani: «Loro non ci pensano due volte a ucciderti!». Tra i capi di accusa che lo porteranno nuovamente in carcere c’è il traffico di droga, la recidiva, il traffico d’armi. Deve scontare solo tre anni. L’avvocato che ha ingaggiato è mafioso e sa come contrattare grazie alla corruzione che esisterebbe tra le forze dell’ordine.
Oggi, mangiando un cono gelato, gli è caduto sulla scarpa bianca da ginnastica, che mi mostra commentando: «Sono nuove, mia madre mi ammazzerà!». Qualcosa che avrebbe potuto dirmi un ragazzino e, invece, lo afferma uno spacciatore che vive scappando dalla giustizia…
J. tirava su cocaina da entrambe le narici con uno strumento che descrive come una sorta di diapason, e racconta che spendeva 40 mila euro al mese in droga – ma adesso ha smesso. Batte con le dita sul setto nasale per farmi sentire il rumore metallico. Anche nelle braccia ha due palle di metallo all’altezza dei gomiti: il suo corpo conserva la memoria delle vicissitudini che mi racconta in maniera sempre più teatrale. Quando arriva un premio grosso, il suo amico della lotteria lo chiama. Lui compra il biglietto vincente in contanti e il denaro è ripulito. Lo stesso avviene con due concessionarie. Grandi quantità di soldi circolano continuamente grazie al commercio della droga, ai complici e, talvolta, anche alle forze dell’ordine.
Cerca un altro video su YouTube: sta cantando una canzone andalusa durante un compleanno. Lo guardo: sembra molto giovane, prima che la vita di strada lo risucchiasse al suo interno come un vortice dal quale sembra impossibile uscire: «Quando appartieni a una famiglia mafiosa non puoi scegliere che vita fare». Così, aneddoto dopo aneddoto, le ore passano e io ho di fronte un uomo – che la prossima settimana sarà in carcere, e adesso passa il tempo dando ai gatti i suoi biscotti alle noci. Un uomo che la società ha perso per strada, che non ha avuto l’opportunità di studiare: fuggito in Spagna con la madre per scappare da un padre violento. Un uomo che non sa fare altro che ciò che gli hanno insegnato: spacciare.
Lo saluto dicendogli che spero che, quando uscirà dal carcere, possa cambiare vita anche grazie al milione di euro che dice di avere da parte… Mi ha detto dove vive e, se voglio, lì posso andare a vedere la realizzazione del suo sogno: «Una fattoria come quelle degli americani, con la staccionata e i cavalli».
Cuando un narcotraficante alimenta a gatos callejeros
Lejendas urbanas
Traduzione in castigliano
di Noemi Neri
Es de noche cuando veo a un hombre que deambula entre las ramas llamando a un gato rojo y lanzándole algo que no consigo descifrar. Conozco a esta colonia de felinos porque les llevo comida y quiero asegurarme de que no les hace daño, así que espero. Me quedo quieta y lo observo sin miedo a que me vea. Cuando se acerca a la luz le pregunto si les estaba dando de comer. «Vengo todas las noches. Le traigo unas galletas que hago con nueces y piensos». Es de origen turco, tiene 11 gatos, 2 caballos y 2 perros. Aunque es tarde, empezamos a hablar de la colonia felina, el hombre no está limpio, lleva pantalones de chándal y un jersey.
A veces, cuando camino por una plaza llena de gente, pienso en lo que me dirían si pudiera hablar con cada uno de ellos. Si me dejaran entrar en su mundo para intercambiar vidas durante unos minutos. No importa si lo que dicen es verdad o mentira, siempre me quedo a escuchar a alguien que tiene una historia que contar.
J. me cuenta que la semana que viene tiene que entregarse a la policía porque le han condenado a tres años de cárcel. «Tengo que ir a can». Supongo que se refiera a Cannes y le pregunto por qué tiene que ir a una cárcel francesa si estamos en España. J. ha estado en Italia, quiere decir unas palabras y se acuerda de can pensando que significa cárcel. Más tarde, durante la conversación que dura unas tres horas, vuelve a pensar en esa palabra, me pregunta cómo llaman a los papeles de fumar y es entonces cuando me doy cuenta de que la palabra que conoce es porro, canna en italiano.
Abro un paréntesis sobre la venta de marihuana, ya que me explica cómo lleva el negocio. Supongamos que una familia vive en una casa con varias habitaciones y que, entre ellas, dos no se utilizan. El acuerdo con el traficante consiste en utilizar las habitaciones para cultivar marihuana. Él trae las semillas, cuida las plantas, las poda y las vende en el mercado. Los beneficios de la primera cosecha son completamente suyos por la inversión inicial, a partir de la segunda, la mitad para uno. La familia puede ganar fácilmente diez mil euros al mes. Me dice con elegancia para tantear el terreno: «Supongo que una persona como tú no hace estas cosas». Y tiene razón, por cierto ni siquiera fumo.
Nuestra conversación gira en torno a las increíbles hazañas de mi interlocutor, el núcleo de verdad se esconde ahí, en algún lugar en medio de las palabras, el resto es una novela que le convierte en la mejor versión de sí mismo, aunque sea como protagonista de un mundo criminal. Ya ha estado en la cárcel, allí hay tres actividades diarias obligatorias. Despertarse a las ocho, un par de actividades hasta la una, almuerzo y a las cuatro la última actividad. A las siete les llaman para cenar y a la mañana siguiente tienen que estar levantados y vestidos para la revisión rutinaria.
Por supuesto, en la cárcel se reproduce el capitalismo como una especie de compendio de la dinámica social. Cada recluso tiene derecho a dos vis a vis al mes, más uno que puede concederse extra. Cuando el visitador y el visitado están solos en la habitación que les permite tener cierta intimidad, el visitador saca la droga de sus partes íntimas, la mete en un preservativo y la introduce en el ano del preso que luego la venderá a sus compañeros. Son dinámicas que conozco por las películas, ahora este hombre me las explica como si fuera la rutina más natural del mundo.
En YouTube me enseña un vídeo de la Guardia Civil hablando de una operación en la que encontraron más de 4Kg de droga por valor de casi 250 millones de euros, dice que él formaba parte de la banda, que esta es una de las veces que le pillaron. J. cree que no es un imprudente, al fin y al cabo ha invertido lo que ha ganado, se ha comprado casas en las principales ciudades españolas, tiene muchos coches de lujo, con un Lamborghini hizo Málaga-Marbella en quince minutos.
J. dice que tiene ropa de las grandes marcas de moda, pero no esta noche. Esta noche está dando de comer a gatos callejeros, contando los días que faltan para que tenga que entregarse. Me enseña dónde esconde la droga, dentro de la flor amarilla de una palmera y detrás de un banco. Me da una receta para cocinar el bonito en salazón, a su madre le gusta cómo cocina. Estos detalles le devuelven momentáneamente a la normalidad antes de volver a los tiroteos de Medellín, Colombia. Me enseña las cicatrices que le dejaron las balas, una le dio en la cabeza de pasada, no le mató porque era una bala del calibre 22, una mierda en su opinión. Le explico que no tengo ni idea de lo que puede ser el tamaño de una calibre 22 y me enseña una colilla para dejar clara mi opinión.
Volvemos a hablar de comida, me recomienda una buena tienda de kebabs, pero enseguida vuelve a Qatar, donde su abuela tiene una librería más alta que el edificio que tenemos detrás. Allí ha encontrado un libro en piel humana y otro sobre brujería de los que sólo hay tres en el mundo en poder de reyes marroquíes. Le escucho, espectadora de su fantasía que se mezcla con la realidad. Nunca sabré cuánto hay de verdad en lo que me cuenta, pero es su historia y debo reconocerle cierta habilidad narrativa.
Fue su padre, el mayor narcotraficante del mundo (!), quien le inició en el tráfico de drogas. J. tiene dos amigos napolitanos, «ellos no se lo piensan dos veces antes de matarte». Entre los cargos que le llevarán de nuevo a la cárcel están tráfico de drogas, reincidencia y tráfico de armas. Sólo tiene que cumplir tres años. El abogado que ha contratado es mafioso y sabe regatear gracias a la corrupción entre la policía.
Hoy mientras comía un helado en un cono, se le ha caído sobre su zapatilla blanca, me la ha enseñado comentando: «Son nuevas, mi madre me va a matar». Algo que podría haberme dicho un chaval y en cambio me lo cuenta un narcotraficante que vive huyendo de la justicia.
J. solía sacarse cocaína por ambas fosas nasales con un instrumento que describe como una especie de diapasón, gastaba 40.000 euros al mes en drogas, ahora ha dejado de hacerlo. Se da golpecitos con los dedos en el tabique nasal para que yo pueda oír el ruido metálico. Incluso en los brazos lleva dos bolas metálicas a la altura de los codos, su cuerpo conserva el recuerdo de las vicisitudes que me cuenta de forma cada vez más teatral.
Cuando llega un premio gordo, su amigo lotero le llama. Compra el billete premiado en efectivo y el dinero queda limpio. Lo mismo ocurre con dos concesionarios de coches. Grandes cantidades de dinero circulan todo el tiempo gracias a la venta de droga, a los cómplices y, a veces, incluso a las fuerzas del orden.
Busca otro vídeo en YouTube, está cantando una canción andaluza durante una fiesta de cumpleaños, era joven, antes de que la vida callejera le absorbiera como un vórtice del que parece imposible escapar. «Cuando perteneces a una familia mafiosa, no puedes elegir qué tipo de vida quieres». Así, anécdota tras anécdota, pasan las horas y delante de mí tengo a un hombre, que la semana que viene estará en la cárcel, mientras da de comer a los gatos sus galletas de nueces. Un hombre al que la sociedad lo ha perdido en la calle, que no ha tenido la oportunidad de estudiar, que vino a España con su madre huyendo de su padre violento. Un hombre que no sabe hacer otra cosa que lo que le enseñaron: traficar.
Le saludo diciéndole que espero que cuando salga de la cárcel pueda cambiar su vida con el millón de euros que dice tener. Me dice dónde vive, si quiero puedo ir allí a ver su sueño hecho realidad: «una granja como los americanos, con una valla y caballos».
venerdì, 10 maggio 2024
In copertina: Una colonia felina, foto di Laila da Pixabay. Il racconto è opera d’ingegno dell’Autrice e non può essere riprodotto né parzialmente né integralmente senza il consenso della stessa. Tutti i diritti riservati