Un nuovo capolavoro dal Sol Levante
di Simona Maria Frigerio
Marebito è un termine complesso con almeno due rimandi importanti, uno al folklore e uno alla cinematografia horror giapponesi. Nel primo caso si fa riferimento alla terra dei marebito, ovvero persone rare o divinità ospiti, che provengono da un mondo utopico, al di là degli oceani, visitano il nostro, per un breve periodo di tempo, e poi se ne vanno – silenziosamente come sono arrivati, senza dettare regole o manovrare le nostre vite dall’alto dei cieli. Marebito è il titolo, altresì, di un horror del 2004, diretto da Takashi Shimizu, in cui un cameraman, Takuyoshi Masuoka (interpretato da Shin’ya Tsukamoto), resta affascinato dalla morte o, più esattamente, dal suo orrore: «I suoi occhi non hanno visto qualcosa che lo ha terrorizzato. Hanno visto qualcosa, proprio perché egli è terrorizzato», dirà il protagonista riferendosi al suicida che ha filmato in metropolitana. Masuoka, poi, incontrerà un senzatetto che gli consiglierà di stare attento ai Dero, i quali sarebbero gli abitanti di un mondo sotterraneo.
Questi sono i due spunti dai quali può essere partito Jo Kanamori per la sua nuova coreografia, The song of Marebito, in prima nazionale e in apertura al Visavì Festival. Ma i riferimenti che vi si possono trovare sono anche altri. La passione totalizzante fino alla morte di Ecco l’impero dei sensi del maestro dell’erotismo più raffinato, Nagisa Ōshima; l’oscurantismo del Medio Evo occidentale, e la visione sessuofobica di una Chiesa cristiana che vedeva nella donna, Eva, non colei che saggiamente pretese il sapere per discernere e scegliere con consapevolezza, ma che stupidamente tentata aveva condotto alla perdizione Adamo, il maschio – che, a quanto pare, era persino più stupido di lei – il quale avrebbe dovuto garantire il rispetto della legge di Dio. Un oscurantismo che avrebbe ben descritto Umberto Eco ne Il nome della Rosa e che trovò la sua massima espressione in Malleus Maleficarum, il trattato in latino del 1487 che divenne una specie di Codice di procedura penale per l’Inquisizione – contro donne e uomini accusati di stregoneria. A ogni spettatore, occidentale e orientale, trovare altri riferimenti in base alla propria cultura di appartenenza.
Indubbio che Kanamori voglia analizzare i cambiamenti che intervengono nel singolo e in un gruppo sociale con l’arrivo del gaijin. Ma le letture che si potrebbero dare a questo spettacolo coreutico di una raffinatezza sublime, con una prima ballerina che brilla di luce propria e interiore e un ensamble di un affiatamento e una tecnica rari, sono anche altre.
Proprio la luminosità dell’étoile ci fa pensare a un mondo in cui l’uomo e la donna, e gli esseri umani più in generale, non riescono più a dialogare e a incontrarsi, uniformati da un pensiero dominante che appiattisce e sovrasta. Sarà lei a riportare la luce in questa waste land, a ricreare il legame che nasce dalla conoscenza e dal rispetto per l’altro da sé. Ma sarà un cammino impervio, con il rischio che l’individualismo sfoci in sopraffazione. Eppure la soglia, quell’ultimo, liminale passaggio tra questo e l’altro mondo, dovremo varcarla tutti – tranne lei, la morte, che non può morire e a lei resta solo il vagare, tra un qui, dove è Marebito, ossia un ospite, e un al di là che non le partiene – perché non fa parte di quell’Olimpo ristretto, appannaggio delle religioni monoteistiche.
Unica, piccola sbavatura in una performance da applauso, gli assolo finali. Sebbene l’ensemble renda al meglio i movimenti, i ritmi e le coreografie occidentali (con reminiscenze di balletto romantico), negli assolo (tranne della prima ballerina, magica fusione tra Occidente e Oriente) si nota una difficoltà espressiva nel gesto del commiato alla vita: in quel profondo abisso individuale nel quale ognuno dovrà infine precipitare, forse i danzatori giapponesi avrebbero dovuto e potuto attingere a qualcosa di più personale e, nel contempo, più vicino alla propria cultura – laddove il bianco è il colore della morte e del lutto, anche l’addio alla vita dovrà assumere sfumature diverse dalle nostre.
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A seguire Sarah Baltzinger e Isaiah Wilson hanno presentato (senza light design, costumi, un’idea di scenografia, una scrittura drammaturgica e senza nemmeno la musica), Megastructure. In pratica, circa trenta minuti di contorsioni che denotano un’ottima preparazione atletica, adatta più alle arti circensi che alla danza. Se almeno questa specie di bambola gonfiabile avesse subito una trasformazione nel corso dell’esibizione (difficile definirla spettacolo), si sarebbe potuto ravvedere un tentativo di rappresentazione, attraverso il gesto, di un qualche concetto o forma narratologica.
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In chiusura, Pas de cheval, prima assoluta di Andrea Costanzo Martini, in scena con Francesca Foscarini. Sebbene la performance sia presentata come uno studio sui movimenti dei cavalli e i limiti della gestualità del danzatore, non ci troviamo certo di fronte a un maestro di Butō, bensì a due dinoccolati cavalieri da spaghetti western (complice anche la musica). A seguire, il registro cambia e si va sul concettuale, volendo ironizzare (con superficialità) sul mestiere del danzatore, ma siamo lontanissimi dalla critica puntuale e dalla maestria di Balletto Civile e degli Afro Jungle Jeegs che, nel lontano 2008, portarono I prodotti (1) sul palco del Franco Parenti di Milano. Tutto e il contrario di tutto: il servilismo verso le open call dei festival e dei bandi sciorinato tra denuncia per l’ossessione gender e per l’ossessione green. Ironia che rimane in superficie senza mai incidere in profondità. Ma una frase resta, recitata dalla voce off di Francesca Foscarini, ovvero che un corpo in scena è sempre politico. Ecco perché la battuta sul fatto che Andrea Costanzo Martini (nato e cresciuto a Torino) sarebbe israeliano e, visti i tempi, farebbe meglio a non dirlo, lascia perplessi. Al di là che abbia o meno due passaporti, Martini ha lavorato per anni con la Batsheva, la compagnia di danza contemporanea, fiore all’occhiello di Israele, al centro di una importante campagna di boicottaggio negli States, in quanto non ha mai scelto, in molteplici occasioni, di ripudiare il suo ruolo di ambasciatrice della cultura israeliana (ebrea) e non ha mai mosso critiche al Governo sionista di Benjamin Netanyahu, colpevole di genocidio e crimini di guerra – che dovrebbe essere solamente incarcerato e giudicato (coi suoi ministri) da un nuovo Tribunale di Norimberga. Quando Martino chiude con il divertissement sul danzatore che, come il cavallo, per vivere deve accontentarsi di una carota, forse farebbe bene a ricordare al pubblico e alla Compagnia con la quale ha tanto collaborato, che i bambini a Gaza, in questi due anni, hanno dovuto fare a meno persino di quella.
Gli spettacoli si sono tenuti nel corso del Visavì Festival:
Gorizia e Nova Gorica, varie location
giovedì, 9 ottobre 2025, ore 18.30
SNG Teatro Nazionale Sloveno
Nova Gorica
Noism Company Niigata di Jo Kanamori presentano:
The Song of Marebito
(prima nazionale)
ore 21.00
Kuturni Dom
Gorizia
Sarah Baltzinger e Isaiah Wilson presentano:
Megastructure
(Lussemburgo)
a seguire:
Pas de cheval
di Andrea Costanzo Martini
con Andrea Costanzo Martini e Francesca Foscarini
(prima assoluta)
(1) La recensione:
venerdì, 17 ottobre 2025
In copertina: Noism Company Niigata (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Festival)

