
Armi nucleari, ISIS e bombardamenti indiscriminati su Iran e Palestina
di Luciano Uggè e Simona Maria Frigerio
Riassumere le ultime tre settimane in Asia occidentale (o Medio Oriente) è praticamente impossibile. Ma facciamo un po’ d’ordine per fornirvi qualche informazione – da vari punti di vista e con un minimo di approfondimento – in un susseguirsi di fatti e azioni che non sappiamo a quali conseguenze nefaste potrebbero portare l’intero pianeta.
Il 9 giugno ha cominciato a girare la notizia su diverse fonti stampa che l’Iran, grazie a un’operazione di controspionaggio, avrebbe ottenuto importanti documenti strategici israeliani – tra cui progetti nucleari e dettagli su alcune infrastrutture all’interno dei Territori Occupati palestinesi.
In questa notizia, che parrebbe semplicemente un affaire da servizi segreti, esistono in realtà molti punti da prendere in considerazione.
Quanti si ricordano, ad esempio, dell’esistenza di Mordechai Vanunu, attivista per la pace ed ex tecnico nucleare israeliano che, per aver rivelato l’esistenza di armi nucleari segrete nello Stato di Israele, fu rapito nel 1986 dal Mossad, guarda caso in Italia; estradato illegalmente in Israele (pratica illecita che sarà portata alla perfezione dagli States con la cosiddetta Guerra al Terrore); processato segretamente (altro fatto che pone Israele al di fuori delle leggi dei Paesi democratici) per tradimento e spionaggio; e, infine, condannato a 18 anni di reclusione?
Israele, va notato, non ha mai ammesso di possedere armi nucleari (ma allora perché condannare Vanunu?) e, di conseguenza, se esiste, il suo arsenale non è mai stato sottoposto ai controlli dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) che, al contrario, è chiamata dagli States solo quando servirebbe a comprovare l’esistenza di armi nucleari in Iran; o dall’Ucraina per convalidare che i russi, pur controllando la centrale nucleare di Zaporižžja, si auto-bombarderebbero per puro spirito masochistico…
Le rivelazioni iraniane sono state riportate dalla rete libanese Al-Mayadeen e hanno fatto seguito a quelle di Rafael Grossi, direttore dell’AIEA (i cui membri del Direttivo sono 35 ma di essi ben 15 fanno parte dell’Occidente o di Paesi dichiaratamente alleati allo stesso), che affermava come la cooperazione dell’Iran con l’Agenzia delle Nazioni Unite fosse stata incompleta e che l’Iran aveva la capacità di produrre armi nucleari. Dopodiché è stato lo stesso Grossi a smentire se stesso, quando alla CNN ha affermato: «Mai detto che l’Iran stia costruendo la bomba nucleare» (1). Peccato che proprio grazie alle precedenti dichiarazioni, Israele abbia tentato di giustificare il suo attacco all’Iran contrario a qualsivoglia legge internazionale. L’accusa di Grossi è stata smentita, nel frattempo, da Teheran e rimandata al mittente (soprattutto dopo il bombardamento di impianti per l’energia nucleare a scopo civile): se l’AIEA deve verificare la presenza di uranio arricchito e/o armi nucleari, inizi da Israele (sic!). Di certo Israele, oltre al genocidio palestinese, di fronte alla comunità internazionale deve ora spiegare perché abbia costantemente negato di possedere impianti nucleari e impedito all’AIEA di ispezionarli.
Israele come finanziatore dell’ISIS
Tra le rivelazioni dei primi 10 giorni di giugno su Israele, vi sarebbe anche quella del finanziamento di Yasser Abu Shabab (2), già trafficante di stupefacenti e rapinatore di aiuti umanitari, (della Croce Rossa, dell’UNRWA e dell’Onu) diretti al popolo palestinese ma che dirottava verso la borsa nera, speculandoci ignobilmente sopra – come Maria Rosaria in Napoli milionaria!, ve la ricordate?: uno dei più spregevoli personaggi mai creati dalla penna di Eduardo. L’‘amico di Israele’, il signor Shabab, è altresì collegato con gruppi terroristi islamici quali l’ISIS. È lo stesso Stato di Israele ad aver confermato “di armare una milizia palestinese che opera contro Hamas nell’area meridionale della Striscia di Gaza”, la quale sarebbe guidata proprio dal summenzionato narcotrafficante e speculatore sulla pelle del suo stesso popolo.
Circa 300 uomini, in parte scarcerati dalle prigioni di Hamas, sono adesso agli ordini dell’ennesimo ‘pericolo pubblico’ al soldo, invece che degli States (bin Laden sembra non aver insegnato niente agli occidentali), di Israele. Non solo, pare che i miliziani non disdegnino nemmeno di lanciare razzi contro lo Stato sionista. Indubbio che Israele stia giocando col fuoco, vista anche la presenza, tra le fila di questa milizia, di altri membri dell’ISIS – come Issam Nabahin, che proviene dal campo profughi di Nuseirat, e Ghassan al-Dheini, fratello di Walid al-Dheini, membro dell’ISIS ucciso da Hamas. Estremizzando la lotta degli abitanti di Gaza – con l’appoggio della stessa Autorità Palestinese e dell’ex membro di Fatah, Mohammed Dahlan – al solo scopo di eliminare Hamas, Israele potrebbe coltivarsi una autentica serpe in seno.
Una mossa che il tempo giudicherà se si ritorcerà contro lo scacchista di una partita, in ogni caso, persa in partenza.
Dal 13 al 21 giugno: sull’orlo dell’abisso?
Il 13 giugno, senza nemmeno una dichiarazione di guerra e tanto meno un mandato dell’Onu, Israele attaccava l’Iran. La motivazione? La solita: difendersi – grazie anche alla sponda fornita dalla prima dichiarazione di Rafael Grossi (di cui sopra), smentita troppo tardi. Forse fidando sulla caduta dell’āyatollāh Khāmeneī e sulla sua sostituzione con l’ennesimo fantoccio occidentale (un certo Reza Pahlavi, che vive negli States, figlio di quel Pahlavi contro il quale proprio gli iraniani fecero una Rivoluzione nel lontano 1979) o sull’appoggio delle milizie curde in Iran (sempre al soldo degli States e dell’Occidente in tutto il Medio Oriente), Israele sperava in una guerra veloce e indolore. Mentre scriviamo (il 26 giugno) sappiamo che non è andata così perché, al contrario, al di là delle differenze di opinione e di visione politica, gli iraniani sono un popolo orgoglioso e si sono ricompattate intorno al loro leader spirituale ma, soprattutto, hanno dimostrato di sapere che Occidente non equivale a libertà dal velo bensì a servitù al capitalismo predatorio.
Nel frattempo, a San Pietroburgo, dal 18 al 21 giugno, si teneva il Forum economico internazionale a cui partecipavano (visto che la Russia è stata marginalizzata, secondo l’Occidente, e i suoi soldati sono costretti a mangiarsi gli uni con gli altri – vedasi cosa scrive l’ex quotidiano di Antonio Gramsci, 3) 20mila invitati, provenienti da 140 Paesi per prendere parte a circa 150 eventi (molti dei quali, ovviamente, porteranno a contratti bi- e multi-laterali di grande rilevanza economica). Proprio mentre infuriava la guerra tra Iran (aggredito) e Israele (aggressore) alla domanda di un giornalista della Reuters su cosa pensasse di un regime change in Iran e della richiesta statunitense di resa incondizionata (dell’Iran), il Presidente Putin rispondeva (ma prima dei bombardamenti statunitensi su centrali nucleari per scopi civili iraniane) che la Russia e lui personalmente erano in contatto, riguardo al conflitto in corso, «con il Primo Ministro d’Israele e con il Presidente statunitense Trump». E aggiungeva da fine tessitore: «Quando si comincia qualcosa, si dovrebbe sempre valutare se ci si sta avvicinando all’obiettivo o meno. Ciò che osserviamo è che la società [iraniana] si sta compattando intorno alla propria leadership politica nazionale nonostante i complessi processi politici interni, di cui siamo consapevoli, quindi non occorre parlarne [ovvero, rispondere alla prima domanda, n.d.g.]. Questo accade quasi sempre e quasi ovunque, e l’Iran non è un’eccezione». In pratica, escludeva il – da noi agognato – ritorno dello scià (idea in voga sulla stampa mainstream).
Riguardo alla resa incondizionata Putin faceva notare che, secondo le notizie stampa (anche statunitensi) le strutture sotterranee iraniane erano rimaste intatte: «Credo che in questo contesto sarebbe corretto unire gli sforzi per mettere fine alle ostilità e trovare un modo per le parti in conflitto di trovare un accordo, così da assicurare sia gli interessi iraniani, inclusi quelli nella sfera delle centrali di energia nucleare e per altri usi pacifici, sia quelli di Israele riguardo alla sicurezza dello Stato ebraico. Questa è una questione estremamente delicata che richiede azioni molto caute. Comunque, credo che si possa trovare una soluzione».
L’attacco statunitense una farsa? I veri interessi dei giocatori in campo
Il 21 giugno, come sappiamo, Trump ordinava l’attacco contro l’Iran dimostrando di sapersi muovere con la delicatezza di un elefante in una cristalleria (sic!). Perché agiva in tal senso? Le speculazioni a riguardo sono state varie. Ne riportiamo alcune: perché aveva ceduto alla lobby delle armi e/o sionista statunitense; per trarsi d’impaccio avendo affermato su Truth: “Abbiamo distrutto i principali siti nucleari dell’Iran. Missione compiuta”, ovvero avendo (secondo lui) azzerato il pericolo nucleare iraniano e, nel contempo, salvato la faccia agli israeliani che, adesso, potrebbero ritirarsi da vincitori (sic!); oppure per mantenere la propria egemonia: una risposta solamente diplomatica di Russia e Cina avrebbe riaffermato la supremazia degli States e la poca credibilità dei Brics e avrebbe salvato il debito pubblico statunitense, in gran parte nelle mani di PRC e Paesi arabi (i quali, per interessi finanziari, non avrebbero alcun vantaggio a far crollare il gigante dai piedi d’argilla).
Ma è riguardo agli interessi diretti russi in Iran, al di là dei Brics, che la risposta del Presidente Putin a San Pietroburgo che si faceva interessante, visti gli sviluppi dei giorni successivi: «Siamo stati incaricati di sviluppare il progetto tedesco in Iran e completare l’impianto di energia nucleare di Bushehr [gli US, il 21 giugno, hanno colpito Fordow, Natanz e Esfahan, n.d.g.]. Le compagnie tedesche si erano ritirate dal Paese, e gli iraniani hanno chiesto a noi di completare il progetto benché fosse difficile in quanto gli specialisti tedeschi stavano seguendo un proprio metodo, e Rosatom si è dovuta impegnare molto per adattarlo alle unità di potenza del design russo. Nonostante tutto abbiamo completato il progetto e l’unità di potenza funziona perfettamente. Abbiamo firmato un contratto per la costruzione di altre due unità di potenza. I lavori procedono, e professionisti russi lavorano in situ. Sono oltre 200. Abbiamo un accordo con la leadership israeliana perché la loro incolumità sia assicurata». Più avanti il Presidente Putin ribadiva che esisteva: «un livello sufficientemente alto di fiducia tra i nostri Paesi: abbiamo rapporti molto buoni con l’Iran. Potremmo continuare questo lavoro e assicurare gli interessi iraniani nel settore. Non entrerò nei dettagli ora, perché esistono varie sfumature di discussione con entrambi, Israele e Stati Uniti. Abbiamo anche inviato segnali ai nostri amici iraniani. In generale, gli interessi dell’Iran nell’energia nucleare a scopi civili possono essere assicurati e le preoccupazioni di Israele possono essere cancellate allo stesso tempo. Credo che esistano tali soluzioni».
In realtà sappiamo dalle ultime dichiarazioni di Raphael Grossi che le preoccupazioni di Israele non poggiavano su alcuna minaccia reale: non vi è – come non vi era con Saddam Hussein alcuna arma di distruzione di massa – alcuna prova che l’Iran stesse sviluppando un’arma nucleare ma, forse, a questo punto cominceranno a pensarci. Secondo alcune dichiarazioni apparse sui mezzi si informazione iraniani (dopo gli attacchi statunitensi del 21 giugno), vi è la possibilità che il Paese si ritiri dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Eppure gli accordi sul nucleare a scopi pacifici in Iran erano già stati siglati da Barack Obama con l’appoggio dell’Unione Europea e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2015. Non si capisce quindi perché Trump li stracciò, durante il primo mandato, Biden non tornò sui passi dell’ex Presidente repubblicano, e oggi siano nuovamente messi in campo come scusa per un attacco proditorio e illegale da parte di Israele, prima, e degli Stati Uniti, poi.
Ma facciamo un ulteriore passo avanti nell’analisi, a bocce ferme. L’Iran ha firmato, dopo il 21 giugno, un trattato con la Russia ancora più stretto sia a livello tecnologico che militare. La Cina e i Paesi arabi del Golfo – così come l’Europa che, però, non pare accorgersene – hanno la necessità che lo Stretto di Hormuz continui a essere un passaggio sicuro per il transito del 25% del petrolio mondiale. La redazione ipotizza quindi che, non avendo funzionato la solita manovra israeliana (o statunitense), shock and awe, per gli States sia diventato complicato spiegare alla Repubblica Popolare Cinese e ai Paesi arabi perché non avrebbero più potuto utilizzare per i propri commerci lo Stretto (sul territorio controllato dall’Iran). E così, mentre il NYT e altri media statunitensi accusavano più o memo apertamente il Presidente Trump di aver mentito sull’efficacia dei bombardamenti sull’arsenale nucleare (mai posseduto) dell’Iran, forse Trump aveva capito che il debito pubblico del Paese (nelle mani dei succitati Paesi) conta di più delle mire israeliane di estendere i propri confini su una terra promessa da un qualche dio (tra i tanti), promessa inscritta in un libro che non ha alcun fondamento storico (lo stesso libro che ha permesso la persecuzione di Galileo Galilei, sic!)?
La credibilità dell’AIEA e il cessate il fuoco US: le news del 24 giugno
Mentre non si fermavano i bombardamenti su Gaza e sui campi profughi in Cisgiordania e gli israeliani subivano cocenti perdite proprio a Gaza, registrando 7 feriti e 3 soldati morti in un solo episodio di un genocidio che ormai pareva tutto in discesa, il Presidente Trump aiutava il Primo Ministro israeliano Netanyahu a togliersi dall’impiccio della guerra contro l’Iran – che non avrebbe mai potuto vincere da solo, nei tempi limitati che lo Stato di Israele avrebbe retto. Tenendo anche conto del fatto che si sarebbe ritrovato a combattere in proporzione: 1 contro 10.
Nel frattempo, gli attacchi iraniani contro la Base statunitense in Qatar – col passare delle ore – parevano sempre più di facciata che reali, così come quelli statunitensi nei confronti delle centrali nucleari in Iran: l’impressione – leggendo i vari comunicati – era che il Presidente Putin avesse giocato una mano vincente con i due contendenti, salvando la credibilità di entrambi. Trump poteva affermare (anche se palesemente falso) di aver azzerato la cosiddetta minaccia nucleare iraniana, disinnescando la bomba di un coinvolgimento diretto degli States in un altro Afghanistan; e, dall’altra parte, l’Iran poteva tornare al tavolo delle trattative con la schiena ben diritta – sostenuta dalla Russia nel suo legittimo diritto di sviluppare energia nucleare a scopi pacifici (anche grazie a Rosatom e ai tecnici della Federazione Russa).
Ovviamente, mentre scriviamo non sappiamo se la tregua reggerà, visto anche che da Israele arrivano minacce di assassini mirati (“una decimazione ammessa dalle fonti ufficiali che hanno onorato la memoria di figure rappresentative”, come definisce il Corsera gli attacchi terroristici volti alla decimazione di scienziati, tecnici e delle loro famiglie, bambini compresi, 4); e i bombardamenti quotidiani, sui palestinesi come sul Libano.
E però, nel frattempo, la Russia si sta muovendo anche rispetto all’AIEA, come dimostra l’intervista di Roman Ustinov a RIA Novosti, in cui ha sì plaudito Grossi per aver chiesto una sessione speciale, ma ha anche puntualizzato che il «Direttore Generale non ha pronunciato alcuna valutazione o condanna riguardo agli attacchi contro le centrali nucleari iraniane sotto la salvaguardia dell’AIEA. E notiamo un’ulteriore tendenza preoccupante: l’enfasi nei suoi commenti si sta spostando sul permettere agli ispettori dell’AIEA di recarsi in detti siti nel più breve tempo possibile».
La Federazione Russa tiene però a precisare che questo non è l’obiettivo primario al momento (anche perché non risultano fughe di materiale radioattivo nelle zone colpite, probabilmente grazie a un accordo segreto tra Iran, Us e Russia – possiamo immaginare – che ha permesso al primo di spostare in tempo l’uranio e gli scienziati presenti, senza conseguenze). Per Roman Ustinov – che si occupa da tempo di simili questioni per la Federazione Russa – «La cosa più importante adesso è fermare ogni attacco alle strutture nucleari. E solamente dopo potremo discutere di come ristabilire i controlli e le ispezioni dell’Agenzia».
Va sottolineato che, nella stessa intervista, Ustinov ha notato che il futuro dell’AIEA dipenderà molto da come risponderà a questa situazione di crisi: «Da sempre chiediamo che non si manipoli il sistema di salvaguardia» fornito dall’Agenzia, il cui mandato è quello di «promuovere la produzione di energia nucleare e fare le attività di verifica» ma deve dimostrare altresì di essere «capace di affrontare questa sfida e attenersi al proprio mandato attuando misure concrete» (5).

Israele, alle prese con l’Iran, si astiene da altri massacri?
Nel frattempo Israele ha continuato a bombardare Gaza, a distruggere le case dei palestinesi nel Campo profughi di Jenin e in tutta la Cisgiordania, a uccidere uomini donne e bambini o a mutilarli orribilmente. Ha attaccato anche il Libano e qualche bomba è stata sganciata qua e là giusto per dimostrare di esistere ancora, soprattutto di fronte alla popolazione di Tel Aviv che, fino a pochi giorni or sono, mentre gli siareliani commettevano le peggiori atrocità nei confronti dei palestinesi, continuava a bersi l’aperitivo come se nulla fosse (da dichiarazioni rilasciate da israeliani a questa Redazione).
Il direttore del Freedom Theatre di Jenin, Mustafa Sheta, dopo 15 mesi di reclusione amministrativa, è stato liberato ed è ricomparso in pubblico, il 16 giugno, per raccontare la propria esperienza nelle prigioni israeliane (6). Mentre i 20mila residenti del campo profughi sono costantemente perseguitati, brutalmente picchiati, arrestati illegalmente e costretti ad abbandonare Jenin (a partire dall’inizio dell’Operazione militare israeliana denominata Iron Wall, nel gennaio di quest’anno), il Freedom Theatre è diventato territorio off-limits.
Dalla sua viva voce, Mustafa Sheta ci ha raccontato di essere stato prelevato dalla propria casa, di fronte ai quattro figli e alla moglie, senza accuse specifiche, senza poter consultare un legale, senza un processo – tanto meno pubblico – e vedendosi continuamente procrastinare il rilascio di tre mesi in tre mesi (per oltre un anno).
Sheta ha raccontato della continua persecuzione dei palestinesi che lavorano in campo culturale, artistico e didattico; di come anche queste azioni – reiterate per decenni – siano servite a disumanizzare un popolo, negandogli opportunità di creazione ed espressione artistica, ma anche un lavoro volto a favore della rielaborazione dei traumi fisici ed emotivi subiti da bambini e ragazzi palestinesi e teso alla resilienza di un’infanzia violata.
Sheta ha sottolineato come in tutti i mesi trascorsi nelle varie prigioni dell’unica democrazia mediorientale (sic!), sia stato insultato, picchiato, privato di sale e zucchero e, per punizione rispetto a qualche perdita nelle file dell’esercito di occupazione israeliana o a un attacco di Hamas, sia stato persino privato dell’acqua da bere. Dopo l’attacco all’Iran e la ferma risposta di Teheran – che ha sbalordito in primis gli israeliani e l’Occidente (come sempre lontani dal sentire reale dei popoli che attaccano) – si domandava cosa stiano patendo gli uomini, le donne e perfino i bambini palestinesi incarcerati illegalmente da Israele.
Di sicuro il numero delle vittime continua a salire e siamo arrivati a quasi 60mila palestinesi uccisi: se questo non è un genocidio, cos’è? O dobbiamo toccare i 6 milioni, come al tempo dell’Olocausto, prima di fermare la nuova incarnazione della distruttività umana (7)?
Domande tante, risposte nessuna
Il 26 giugno, mentre scriviamo, non abbiamo alcuna certezza o soluzione da regalare ai nostri lettori. Al contrario dei media mainstream ammettiamo sia la nostra impossibilità di entrare nelle stanze dei bottoni sia di prevedere il futuro come fattucchiere di fronte alla palla di cristallo.
Gli interessi in gioco sono molto al di sopra delle nostre teste: l’Iran non può essere raso al suolo come Gaza e ha dimostrato una capacità di resistere che gli occidentali non immaginavano, ormai assuefatti alle loro rivoluzioni arancioni. Ma i popoli possono imparare dalla storia più di quanto non facciano i loro governanti.
La Russia ha dimostrato di poter essere un partner diplomatico più affidabile della triade UE e più lungimirante – soprattutto più leale. Gli interessi della Cina sono strettamente legati a quelli del suo cosiddetto nemico giurato perché la prima ha in mano parte del debito pubblico del secondo. Ma è vero anche il contrario: la caduta dell’Occidente collettivo non sarebbe positivo nemmeno per l’economia del Paese che si professa Repubblica Popolare ma, in effetti, è un chiaro esempio di capitalismo di Stato. L’Occidente è sia mercato per la vendita di prodotti cinesi sia sbocco finanziario per gli investimenti (e pensiamo soprattutto agli alti tassi di interesse oggi garantiti dagli States sul proprio debito pubblico). Forse Taiwan è più importante come produttore di microchip, che non come simbolo di una Cina monolitica indivisibile (anche perché, in questa Cina indivisibile, non comprendiamo cosa c’entri il Tibet, territorio occupato fin dal 1950 e al quale la RPC non ha mai pensato di garantire la libertà referendaria voluta dalla Russia per il Donbass e la Novorossija).
La partita tra mondo unipolare a egemonia statunitense (con una UE e una Nato al servizio del padrone d’Oltreoceano) e mondo multipolare trainato dai Brics è ancora tutta da giocare e di fini tessitori, in campo, ce ne sono pochi. Troppi temono di perdere la testa insieme alla poltrona. Troppi sono ormai imbottiti di retorica, come ci ha recentemente raccontato un’attivista e poetessa israeliana ebrea.
Ciò che questa Redazione si chiede è come riuscire a tornare ai famosi confini del 1948, in Palestina, quando, ancora una volta, abbiamo constatato l’impotenza e l’inerzia delle Nazioni Unite durante la crisi in Iran. Un organismo come l’AIEA e tutte le emanazioni del potere statunitense post-Seconda guerra mondiale vanno ripensati dalle fondamenta per diventare davvero efficaci e dirimenti nei conflitti ma, soprattutto, è ora che l’Onu dimostri di essere la voce dei popoli e non più solamente del giardino del mondo del quale crediamo di possedere la chiave.
(2) https://www.ynetnews.com/article/s1skwx7xgx
e
(6) https://greenolivetours.cmail19.com/t/r-l-thkdkjlk-pllyhhkau-g/
(7) https://www.amazon.it/Anatomia-della-distruttività-umana-Erich/dp/8804141840
Segnaliamo anche una Raccolta fondi a favore dei palestinesi:
venerdì, 27 giugno 2025
In copertina: Foto di Raimund Andree; nel pezzo: Gaza, foto di Hosny Salah – entrambe da Pixabay