
Quando l’arte si fa spazio nell’ambiente
di Simona Maria Frigerio
Linee verticali multicolori inserite in facciate di palazzi antichi, in piazze dalle prospettive geometrizzanti, in ambienti espositivi – come le colonne policrome che reggono gli archi bicromi (con un secondo ordine a tutto sesto) della Mezquita di Cordoba. Per i più Daniel Buren, classe 1938, è soprattutto questo. Ma la ricca esposizione a Palazzo Buontalenti (e in altri spazi cittadini) va oltre, invitando a scoprire un artista che, nelle sue opere, crea un connessione sottile ma indissolubile con l’ambiente che le circonda e le accoglie, e in cui sembrano risuonare come campane domenicali a festa (basti pensare alle rifrangenze di Cabane éclatée aux 4 couleurs nel Parco Internazionale della scultura di Catanzaro o alle tende bicrome sulla facciata dell’Antico Palazzo dei Vescovi che rendono omaggio al marmo bicromo del Duomo adiacente, in queste settimane a Pistoia).
Ma entriamo nell’universo di Buren nella prima delle undici sale (più il cortile) a lui dedicate, nella cornice di Palazzo Buontalenti. Qui ci affacciamo sui suoi primi dipinti degli anni Sessanta del Novecento, in cui esplorava le potenzialità delle forme geometriche (ancora non esclusivamente stilizzate nella riga in verticale) nello spazio ristretto di una tela, un foglio di carta, persino un pezzo di carta d’alluminio – quasi coevo a Michelangelo Pistoletto, che usava però l’alluminio quale base riflettente.
Nella seconda sala, di poco posteriore temporalmente, cinque opere in cui Buren usa direttamente la tela a righe, sulla quale appone uno strato di colore acrilico che le inquadra quasi volesse porre lo spettatore di fronte a una serie di finestre, dalle quali osservare il mondo che si stava delineando in lui. Siamo ancora in una fase di sperimentazione che, però, comincia ad acquisire tratti stilistici unici e personali.
Nella terza sala un’ideazione nata nel 1974. Un tentativo di volgersi a sperimentazioni di videoarte e trasmissione simultanea attraverso cinque video di varie dimensioni che ripropongono le medesime righe, riprese in diretta da altrettante telecamere. Coeva alle prime opere di videoarte di Bill Viola e di poco posteriore alle video/installazioni di Nam June Paik, troviamo nella fissità dell’immagine e nella mancanza dell’interscambio e della mise-en-abîme dello spettatore (si veda, al contrario, l’acuto sfasamento temporale di Blue Line di John Baldessari alla Fondazione Prada) i suoi limiti.
Nella sala successiva scopriamo ulteriori tentativi di volgersi a mezzi altri. I Triptyque Electrique (Rouge, Orange, Blanc) in tessuto in fibra ottica rimandano a lavori di precedenti e attuali maestri del neon, da Mario Merz a Carsten Höller. Buren si diverte a sperimentare, ma sicuramente non è questo il suo medium.
Nel cortile ecco finalmente uno tra i lavori che caratterizzano profondamente l’artista, Découpé / Étiré (1985), adattato per il sito in cui è posizionato. Legno, specchi, vinile adesivo e pittura per uno dei suoi labirinti del fauno (come ci piace soprannominarli) nei quali perdersi, lasciando andare la fantasia. Obbligatorio salire sulla pedana e percorrerla, vivendo l’opera dall’interno e dialogando con i suoi scorci, le sue prospettive, la sua spazialità geometrizzante ma mai claustrofobica. Al contrario. I corpi si scompongono in immagini che si moltiplicano e sfuggono al senso del reale ricreando uno sfasamento spazio-temporale che può davvero precipitare l’osservatore attento in una moderna sindrome di Stendhal, perdendosi a se stesso e al qui e ora.
Nella sala 5 giochi di specchi e colori (che ci ha rammentato un altro maestro, visto recentemente a Galleria Continua, Carlos Cruz-Diez). Esempi di Opt Art in una serie in situ intitolata Quando il colore si guarda, cosa vediamo di lui? (1990), che gioca amabilmente con lo spettatore. Negli specchi coperti da bande verticali bianche si riflettono i colori di una serie di pareti monocrome – blu, gialla, rossa, verde e ciclamino. Ovviamente, a seconda della prospettiva, ogni specchio assumerà riflessi coloristici diversi, spiazzando l’osservatore e il suo senso di realtà.
La sala 6 è dedicata a una delle splendide Cabane di Buren, che l’hanno reso giustamente famoso in tutto il mondo. Lavoro rielaborato in situ (2000/2019) è in plexiglass, legno, tela di cotone bicroma (per il tetto) e acrilico. Simplement éclatante! E però il giallo delle pareti circostanti se è vero che l’abbagliano, in parte ne smorzano la carica labirintica in quanto è necessaria una estrema attenzione per entrarvi e non sbattere (come farfalla in un barattolo di vetro) contro le sue pareti trasparenti.
Accanto, una sala accoglie gli schizzi preparatori di alcune tra le opere più iconiche di Buren nel nostro Paese, in cui si nota l’attenzione per il fruitore (forse mutuata dal genio di F. L. Wright). Pensiamo, ad esempio, al Padiglione di emodialisi dell’ospedale di Pistoia e a un paziente, costretto per ore, ogni settimana, in quel letto, che può almeno librare la fantasia tra i colori disneyani di Buren. Le opere d’arte, come insegnava un maestro indimenticabile quale Chen Zhen, andrebbero vissute, toccate, accarezzate, suonate, interagite.
Saltare alla sala 9 è come tuffarsi in una moderna Mezquita. La medesima sensazione di perdersi in un labirinto di colori che aspirano alla bellezza della verità. Siamo immersi in Arlecchino all’infinito (2003), riadattata per lo spazio pistoiese, in Alucobond (pannello composito costituito da due lamine di alluminio accoppiate a un nucleo minerale), legno, plexiglass e vinile. Qui la mise-en-abîme offre al visitatore la possibilità, come negli esperimenti riflettenti di Anish Kapoor, di perdersi e ritrovarsi – ma non solamente a livello giocoso bensì subliminale. Siamo sulla soglia del nostro io caduco o dell’eternità asettica e impersonale? L’immagine cangiante che vediamo forse ci rappresenta, o è solo crisalide di un’essenza persa e ritrovata e persa di nuovo? Sono io o sono La Signora di Shanghai nella scena finale del capolavoro di Orson Welles?
Semplicemente deliziosa nella sua leggerezza, nella sala 10, la Cabane luminose n° 1, del 1985, in legno, tessuto a banda, colla, tela di cotone, acrilico, elettricità. Solare come un paesaggio di Van Gogh, come la Provenza vestita d’estate, come le cabane che costruiscono in Thailandia sulle spiagge per accogliervi gli sposi la sera delle nozze o gli innamorati a San Valentino.
Nella sala 11 pare di sentire Bluto incitare: «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare!». Impossibile non farsi conquistare da questi prismi e specchi che respingono e invitano quasi ci si trovasse in un campo da football americano pronti allo scontro. Composizioni modulari reinterpretabili a seconda degli spazi in perfetto stile Buren, targate 2022.
Una mostra ricca e multi-sfaccettata, che consigliamo caldamente, per scoprire un artista che nel site-specific esprime le sue migliori capacità creative.
La mostra continua:
Daniel Buren | Fare, Disfare, Rifare
fino a domenica 27 luglio 2025
Palazzo Buontalenti
via de’ Rossi 7 – Pistoia
orari: da mercoledì a domenica, dalle ore 10.00 alle 19.00
aperture straordinarie: Pasqua, Pasquetta, 22 e 25 aprile, 1° maggio, 2 e 3 giugno
a cura di Daniel Buren e Monica Preti, direttrice di Fondazione Pistoia Musei
Mostra realizzata da Fondazione Pistoia Musei
con il sostegno di Fondazione Caript
in collaborazione con Galleria Continua
venerdì, 25 aprile 2025
In copertina: Arlecchino all’infinito, lavoro in situ, Palazzo Buontalenti, Pistoia, 2003 / 2005. Particolare. Courtesy Fondazione Pistoia Musei, foto OKNOstudio, Ela Bialkowska © DB – SIAE Roma