
Intervista alla regista Marcela Serli
di Simona Maria Frigerio
Dal 16 al 19 giugno è tornato in scena, all’Elfo Puccini di Milano, Le troiane – tratto dalla tragedia euripidea ma riscritto e diretto da Marcela Serli, con Eva Robin’s, Caterina Bonetti, Noemi Bresciani, Ira Fronten, Elena Husu, la stessa Marcela Serli e Caterina Simonelli.
Leggendo la presentazione ci aveva incuriosito una frase della regista: «Quando abbiamo deciso di fare questo spettacolo avevamo pronto un discorso femminista sulla narrazione stereotipata delle donne nelle tragedie. Poi la guerra è arrivata qui vicino e, a quel punto, mettere in scena Le troiane è diventato altro…». Volevamo capire cosa fosse questo ‘altro’, anche perché il lavoro è stato programmato durante la cosiddetta settimana Arcobaleno e più che ‘altro’ ci è sembrata già questa una scelta stereotipata.
Femminile, guerre, pensiero della differenza
Partendo dalla tragedia rappresentata per la prima volta nel 415 a.C., che narrava le sofferenze delle donne troiane dopo la caduta di Ilio, abbiamo voluto chiedere proprio a Marcela Serli (di cui avevamo applaudito Voglio cambiare lavoro, 1) alcune spiegazioni innanzi tutto sul perché Ecuba o Cassandra siano esempi di stereotipi di genere, quando la letteratura classica e la storia sono ricche di figure femminili controcorrente. Pensiamo alle guerriere, come Pentesilea, Clorinda o le amazzoni, a donne liberate quali Angelica o Antigone – che non si perita di sfidare le leggi degli uomini – fino a Fedra o Medea. Non dimenticando che il dolore di Ecuba ci appare più che stereotipato, umanissimo (come dimostra la recente interpretazione di Giovanna Daddi, 2), e Cassandra resterà per noi, per sempre, la protagonista del capolavoro di Christa Wolf.
Marcela Serli: «Siamo partite da come venivano raccontate le troiane e da principi quali il pacifismo e la non violenza. Anche in rapporto al femminismo che, però, non è un obiettivo bensì uno strumento. La guerra era ed è la protagonista insieme a quelli che definirei i suoi ‘mandanti’, ossia i maschi. A fronte di quanto sta accadendo ho ritenuto opportuno mostrare dei maschi contemporanei, mettendoli in relazione al testo tragico euripideo. Nella letteratura, in ogni caso, quelle che lei nomina sono eccezioni e sono raccontate da autori maschi. Se alle donne – e questa è una delle tesi forti dello spettacolo – fossero state date le armi, e non in letteratura bensì nella vita reale, sarebbero diventate cittadine. E anche quando nella storia, perché erano venuti a mancare i maschi, sono state armate le donne – temporaneamente, per vincere le guerre in corso – terminata l’impasse, immediatamente erano loro tolti i mezzi d’offesa. E quindi la possibilità di essere guerriere, di sviluppare il testosterone: perché la cultura sviluppa la natura e non è vero solo il contrario».
Ma noi donne aspiriamo ai muscoli?
Le armi, strumento del patriarcato o rivendicazione femminista?
Se è vero che le donne, terminata ad esempio la Prima guerra mondiale, hanno dovuto lasciare le fabbriche (dove erano subentrate agli uomini, mandati sui campi di battaglia) e rientrare nel ruolo di mogli e madri, all’interno del focolare domestico (ma più spesso nei campi, come le mondine, o a lavare panni sui fossi e i Navigli mentre gli uomini si spaccavano la schiena in fabbrica o a seminare e mietere); questo non si può dire dopo il ʻ45. Il problema semmai, secondo noi, è che le donne al potere, ieri come oggi, non riescono a esprimere una visione che qualifichi la differenza di genere come elemento alternativo e positivo nel dialogo uomo/donna. Armarsi e andare alla guerra sarebbe femminista? Allora possiamo dire che Israele già rappresenta bene questa visione del mondo. Al contrario, noi pensiamo che l’affrancamento femminile passi attraverso l’educazione, i libri, la cultura, il pensiero differente – come nella splendida fotografia di Steve McCurry (ops: un maschio!), La ragazza di Herat (3).
Se per Luce Irigaray, la “differenza epistemologica femminile” era intrinseca al suo discorso e la specificità del pensiero femminile doveva diventare il contributo unico e differente al sapere; ciò che vediamo sotto i nostri occhi è, purtroppo, una fluida uniformità di intenti distruttivi. Questo fin dai tempi di Matilde di Canossa o Giovanna d’Arco, per arrivare a Golda Meir – che diede il via libera al Mossad per uccidere i palestinesi fuori da Israele, nel contesto dell’Operazione Ira di Dio; a Margaret Thatcher – tronfia del suo premierato che si macchiò della guerra delle Falkland/Malvinas e della repressione dell’IRA (compresi gli scioperi della fame che portarono, ad esempio, alla morte dell’attivista Bobby Sands); o agli esempi odierni di politiche in mimetica ed elmetto: da Kaja Kallas a Usula von der Leyen, fino a una Annalena Baerbock che tenta di stringere la mano (ma non ci riesce, sic!) al terrorista e ricercato internazionale, al-Jūlānī.
Dove vede, Marcela Serli, i germi di questo pensiero della differenza? Perché e come le donne potrebbero creare un altro mondo possibile?
M. S.: «Purtroppo esistono donne che usano malamente o maldestramente gli strumenti maschili, gli strumenti del patriarcato. Io credo che questo sia vero ma è altrettanto vero che la nostra società non vede l’ora di additare, ad esempio, le madri che uccidono i propri figli, anche se la percentuale delle stesse è infinitesimale. Però, secondo me, le donne che esercitano il potere secondo quella visione sono pochissime. In alcuni Paesi occidentali sta già succedendo: i nuovi generi sono integrati e tutti insieme stiamo rompendo il binarismo in modo dolce. Tutto sta nell’ascolto. Per me il teatro è uno strumento potente in questo senso. Perché è la casa dell’ascolto e del dialogo. D’altro canto, anche l’educazione può fare molto. Gli scienziati affermano che si impara l’attitudine genitoriale a partire dai due anni: quindi, la bambola andrebbe regalata non solamente alla bambina così che la cura e l’accudimento dell’altro diventino patrimonio comune dei due genitori».
Da Ufo Robot ai capelli corti: erano gli anni 70
Sicuramente il discorso della cura compartecipata, dell’educazione emotiva, dei giochi condivisi sono patrimonio delle donne da decenni. E però, al di là che esista un binarismo biologico – che, secondo noi, non può essere occultato o superato da alcuna sovrapposizione culturale – vediamo che uno spettacolo che vuole rompere gli schemi come Le troiane, la guerra e i maschi: una re-visione necessaria finisce per essere messo in scena nella settimana Arcobaleno. Anche questo non è uno stereotipo, anzi un passo indietro, una forma di chiusura al contrario? Soprattutto quando ricordiamo che l’Elfo, negli anni passati, proponeva ad esempio uno scabroso e lancinante Edoardo II di Christopher Marlowe dal 3 gennaio al 4 febbraio 2001.
M. S.: «Concordo. Però i direttori del teatro hanno ritenuto che potesse essere interessante proporre un mio lavoro in questo periodo dato che io, sia negli spettacoli sia nella mia vita quotidiana, mi ritengo un’attivista femminista. Prima o poi il mese Pride diventerà una Stagione intera e tutto sarà possibile, anche il Pride dei Cis, ossia delle persone la cui identità di genere coincide con il sesso biologico. Da qualche parte dobbiamo cominciare. Anche le quote rosa, secondo me, possono servire, altrimenti come possiamo scardinare 5mila anni di oppressione? L’obiezione è che potrebbe salire al potere una persona priva di meriti, come se al Governo ci fossero sempre stati solo maschi arrivati per meritocrazia. Io preferisco che anche donne ‘senza qualità’ arrivino al potere e poi giudicare se hanno meriti o meno».
Passando dal potere politico al mondo del teatro, la situazione è diversa?
M. S.: «Le donne regista e autrici sono il 15% del totale, le attrici il 36% e la cosa è ancora più assurda perché la maggior parte degli spettatori sono donne. Inoltre, nessun teatro nazionale è diretto da una donna. L’Italia è un Paese molto arretrato in fatto di diritti anche in campo teatrale».
Passando allo spettacolo, perché ha scelto Eva Robin’s – che, negli ultimi anni, è stata protagonista di più di una pièce di Teatri di Vita – per il ruolo di Ecuba?
M. S.: «Trovavo molto interessante che a rappresentare la donna che ha partorito 50 figli ed è destinata a portare avanti la stirpe fosse interpretate da una donna – e mi permetto un’affermazione abbastanza cruda – ‘senza utero’. Questa crudezza del resto è presente nell’intero spettacolo, così come un gioco quasi infantile che diverte il pubblico. Potrei descrivere il lavoro come una rivisitazione tragicomica, sebbene siano ben presenti i temi de Le troiane. E non solo, Eva è anche una brava attrice, ha una lunga carriera teatrale alle spalle, ha partecipato a molti film d’autore ed è una persona educata, gentile e oserei usare – per definirla – la parola ‘nobile’».
Ultima domanda: qualche altra chicca sulle contraddizioni tra interprete e ruolo?
M. S.: «Anche per gli altri ruoli ho scelto attrici non ‘conformi’. Ad esempio, Noemi Bresciani è una danzatrice con un viso angelico ma interpreta Atena, ossia la Dea che decide e comanda. Nel ruolo di Cassandra vi è Caterina Simonelli e occorre dire che la profetessa è spesso trasposta come un oggetto sessuale, visto che diventa la concubina di Agamennone e, al contrario, io dò importanza al suo ruolo sacerdotale e al fatto che preferirebbe morire che essere violata. Per quanto mi riguarda, interpreto il corifeo e gli uomini, ovvero il messaggero e Menelao, questo perché essendo la regista in qualche modo esercito il mio potere – anche se in maniera molto ironica. E infine vorrei aggiungere che la ‘regista dello spettacolo’ è interpretata in scena da Caterina Bonetti, che ha solo 14 anni!».
(1) https://www.inthenet.eu/2020/08/07/teatro-di-corte/
(2) https://www.inthenet.eu/2023/01/06/ecuba-la-cagna-nera/
(3) http://improvvisazionipoetiche.blogspot.com/2016/01/steve-mccurry-ii-parte-ritratti-e-volti.html
venerdì, 4 luglio 2025
In copertina: Un momento di Le troiane, la guerra e i maschi: una re-visione necessaria, di Marcela Serli (foto di Salvatore Pastore, utilizzata sui media per pubblicizzare lo spettacolo)